Dizionario della mitologia nordica - Pdf [Ita]

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N.B: Per una maggiore comprensione dei testi è consigliata la lettura secondo l'ordine di immissione

 

 

Il Mondo Nordico

 

 

Ginnungagap - La nascita dell'universo

Il Ginnungagap, l'abisso degli abissi, baratro gigantesco paragonabile al nulla caotico dove misteriose energie e incontrollati fermenti si agitano in questo affascinante e desolante paesaggio primordiale per dare vita all'universo. Il termine Ginnungagap ha due differenti possibili significati: uno potrebbe essere un accostamento con il termine "géna" ovvero "baratro spalancato" che si accosterebbe bene visto che di un baratro realmente si tratta, l'altro termine è invece "ginn" che significa "magia", questo potrebbe alludere a una visione del Ginnungagap come fenomeno di natura magica. Non è comunque improbabile che entrambi i termini siano alla base del significato della parola che assumerebbe così il significato di "voragine magica".

A nord del Ginnungagap, si estende il "Niflheim" la "casa della nebbia", la regione dei ghiacci eterni, dominata dal gelo e da una nebbia fittissima. Al centro del Niflheim si trova un gigantesco pozzo, l'"Hvergelmir" che significa "caldaia tonante", in questo pozzo si trovano enormi masse d'acqua che raggiungono temperature molto alte, bollendo e rimbombando paurosamente senza sosta. Da questo pozzo nascono tutti i fiumi del mondo. Nello "Elivagar" "flutti tempestosi", si infrangono delle enormi onde ghiacciate portatrici di una malefica spuma, che condensandosi, ricopre tutto il ginnungagap di una spessa coltre di ghiaccio. Al sud del mondo si trova il "Muspellheim" "la casa dei distruttori del mondo" da dove arriva il calore provocato da altissime fiamme che lo divorano incessantemente. In questa regione regna incontrastata la forza primordiale e terrificante del fuoco selvaggio, non ancora addomesticato dalla civiltà.

E qui dunque, in questo luogo inospitale di gelo e fuoco dove nella notte dei tempi si svolgeranno gli avvenimenti che porteranno alla nascita dell'universo e delle divinità nordiche.

Ymir - Il gigante nato dalla terra

Come già detto, il "Ginnungagap" si trovava tra la desolata ragione delle nebbie e del gelo del "Niflheim" e tra il calore e il fuoco del "Muspellheim". Erano proprio caldo e freddo a dominare l'atmosfera primordiale, incontandosi, questa due forze diedero luogo a un benefico tepore consentendo la formazione di fecondissime gocce di gelo fuso. Da queste minuscole particelle di un caos in fermento nacque Ymir, un gigante che fu progenitore delle forze del male, "i Giganti del Gelo".

Ymir era considerato padre e madre dei giganti, era enorme, tanto grande che disteso ricopriva tutta la terra. Nelle smisurate cavità del suo corpo, celava un fuoco potentissimo che faceva si che il suo corpo avesse una temperatura altissima, da qui deriva un suo appellativo: "Aurgelmir", "colui che fa bollire il fango". Ma anche i gigante di fango e di terra aveva i suoi momenti di stanchezza durante i quali giaceva spossato sulla stessa materia che lo aveva generato. In uno di questi momenti di riposo, il gigante diede alla luce le sue prime creature mostruose: mentre dormiva cominciò a sudare e da alcune gocce di sudore depositate nell'incavo della mano sinistra nacque la prima coppia di esseri giganteschi. Analogamente, dal secreto maleodorante dei piedi di Ymir nacque un gigante a sei teste, "Thrudhgelmir", "il gigante che rumoreggia con forza", padre di "Belgermir", il colosso che salverà dall'estinzione i suoi simili. La sudorazione delle ascelle del gigante non conosceva soste ed ogni goccia portava in sé il germe della vita di un gigante, cosicché, tra miasmi e fetide esalazioni, nacque una moltitudine di esseri giganteschi dalle orrende sembianze, signori della malvagità. Dalla spuma creata dalla fusione del ghiaccio era nata anche "Adhumula", la "nutrice", un'enorme vacca alle cui poppe Ymir trovava refrigerio e nutrimento. Ovviamente si trattava di poppe di dimensioni adeguate alle esigenze di un simile lattante: poppe capaci di dare origine a ben quattro fiumi di latte. La portentosa produzione lattea di Adhumula risulta ancora più eccezionale se si pensa che la bestia si nutriva soltanto leccando le cime delle inaestose montagne di ghiaccio poste sullo sfondo del gelido orizzonte. Da questi ghiacci perenni la vacca estraeva una sostanza salata ricchissima, a quanto sembra, di elementi nutritivi e fecondanti. Con le sue leccate, infatti, un giorno modellò i capelli di un essere dalle fattezze umane, il giorno dopo, seguendo gli oscuri dettami del suo istinto materno, scolpì con la punta della lingua un volto; il terzo giorno infine completò la sua opera e si vide un uomo: "Buri", il "generante". Non si era mai visto nulla di simile: nella sua maestosità, Buri era bellissimo e forte. Ma da soli, ed in un mondo come quello, non si poteva stare e un giorno, avvalendosi della doppiezza sessuale del suo corpo, Buri fece nascere un figlio un figlio, a sua immagine e somiglianza: "Bor", il "generato". Bor, però, non volle seguire le orme del padre e si uni a "Bestla", la figlia del gigante "Bölthorn", "spina del male". Ebbero tre figli destinati a rivoluzionare l'ordine delle cose: "Odino", "Vili" e "Vé", esseri dotati di intelligenza oltre che di forza. I figli di Bor, avidi di potere, ingaggiarono una furiosa lotta con Ymir. Contro la loro astuzia il gigante nato dalla terra non potè far molto e alla fine soccombette, colpito violentemente alla testa. Il sangue schizzò fuori a fiotti copiosi, provocando un vero e proprio diluvio rutilante, inondando e travolgendo ogni cosa. La marea rossa condannò ad una morte atroce tutti i giganti, tranne Belgermir che insieme alla moglie riuscí a salvarsi aggrappandosi ad un tronco cavo. La carcassa di Ymir precipitò nell'abisso degli abissi (Ginnungagap), macabra testi- monianza della vittoria dei tre fratelli. Tra i resti in putrefazione si agitavano delle larve, germi inconsapevoli di nuove vite. Odino ed i suoi fratelli infusero loro l'intelligenza e la coscienza e da quell'informe brulichio nacquero i primi gnomi, esseri di statura minuscola, progenitori dei nani e degli Elfi. Poco dopo, i tre fratelli presero il cranio di Ymir e ne fecero la volta celeste. A sostenere l'enorme cupola litica posero quattro nani: "Austri", "Vestri", "Nordhi" e "Sudhri". I loro nomi indicano i quattro punti cardinali. Alcuni frammenti incandescenti che giungevano come ineteoriti da Muspellheim furono precipitati nei meandri oscuri del grande abisso e da allora, come fari, proiettano la loro luce sulla terra: sono gli astri, il sole e la luna. Lo scempio dei mastodontico cadavere non finì qui: lo scheletro fu utilizzato per plasmare le catene montuose che attraversano la crosta terrestre. Il sangue fornì il liquido necessario per riempire le cavità della terra, dando luogo a laghi e mari. I capelli, nodosi e spinosi, servirono per creare quelle foreste così fitte che la luce del giorno a stento riesce a penetrare. E con un gesto di inusitata violenza, il cervello fu spappolato e ridotto in frammenti che furono scagliati contro la volta litica: sono le nuvole. La terra, sferica e cinta dall'anello acqueo dell'oceano, il mare più profondo ed azzurro di tutti, fu sollevata, così come è, dagli abissi marini. Alle sue estremità i tre fratelli crearono il territorio destinato ai giganti, lo Jötunheim. Al centro della terra, per difenderli dalla furia devastatrice dei colossi, essi, utilizzando le folte ed irte sopracciglia di Ymir, eressero una muraglia grandissima che delimitava il territorio assegnato agli uomini, il "Midhgard", il "regno di rnezzo". Ora non rimaneva che creare gli uomini. I tre figli di Bor, mentre pas- seggiavano su una spiaggia, raccolsero due tronchi trasportati dalla corrente: li tagliarono, modellandoli fino a farne delle forme umane. Odino infuse loro l'anima e la vita; "Vili" "l'intelligenza" e "Vé" i "sensi". In un'altra versione del mito i protagonisti della creazione dei primi uomini sono invece "Odino", "Hoenir" e "Lodhurr". Ma in questa versione gli dèi non trovano dei tronchi, ma dei corpi senza vita. Comunque, quale che sia la versione ufficiale, i primi esseri umani ricevettero dei vestiti e dei nomi: l'uomo fu chiamato "Askr", "frassino" mentre la donna si chiamò "Embla", "olmo o vite". Askr e la sua compagna andarono ad abitare nel Midhgard e da loro si originò la razza umana.

Natura e miti

Una delle caratteristiche dei miti nordici è il voler tradurre nel proprio linguaggio fantastico i fenomeni naturali, inserendoli in trame narrative ricche di riferimenti simbolici. Si tratta, in fondo, dello sforzo di un'umanità alla ricerca dei significati delle cose e in cui la «scienza» è patrimonio di tutti. Culture non ancora divise dalla settorializzazione del sapere, esse inseriscono in una globalità che è quella del mondo mitico eventi naturali quali l'alternarsi quotidiano del giorno e della notte, della luce e delle tenebre, tutti fenomeni ammantati di un alone di mistero che nemmeno le nostre elaborate teorie scientifiche sono riuscite a dissolvere del tutto.

Uno dei primi abitanti dell'universo, un certo "Mundiìfari", ebbe due figli, un maschio ed una femmina. I due infanti erano davvero di una bellezza fuori dal comune, con quel loro colorito roseo e quelle guance paffute. Il genitore, orgoglioso di una simile progenie, pensò che i suoi figli non potevano avere dei nomi qualsiasi, ma meritavano degli appellativi degni della loro bellezza. Allora chiamò la fanciulla "Sol", "sole", e il maschio "Mani", "luna", pensando che solo i due astri li eguagliassero in perfezione estetica. Ma gli dèi, che avevano creato il sole da una favilla incandescente, si sentirono offesi da tanta presunzione: come poteva un comune mortale appropriarsi dei nomi degli astri da loro creati? Tanta vanagloria andava punita severamente. Sol, che intanto era andata in sposa a "Gienr", "splendore", fu prelevata dalla terra e messa su nel cielo a fare da postiglione al carro che trasporta il sole. L'immensa carrozza, lambita costantemente da tremende lingue di fuoco, è trainata da due possenti destrieri: "Arvarkr", "prima veglia" e "Alsvidhr", "supremo nella forza" oppure "molto saggio". Un portentoso mantice provvede a raffreddare i ventri dei cavalli, preservandoli dalle fiamme. Ogni giorno, e lo si può osservare guardando il cielo, l'imponente carro guidato dalla bellissima Sol si muove da est verso ovest ed è inseguito da uno spaventoso lupo, "Skoll", il "traditore". La bestia nacque in una foresta ad oriente di "Midhgard", la famosa "foresta di ferro", da una strega orribile, che generò una moltitudine di belve fameliche, disseminate per il mondo. Mani, il fratello di Sol, fu invece posto alla guida del carro che trasporta la luna, determinandone il sorgere o il calare. Ma nel cielo stellato Mani si sentiva solo e un giorno rapì dalla terra "Bil" e "Hinki", due bambini che stavano guardando la luna nel pozzo. I due fanciulli furono legati al carro lunare e infatti, se si osserva attentamente la superficie lunare, si vedono delle chiazze scure: sono i due infelici che si dimenano. Ecco perché i vecchi, seduti davanti al focolare, raccontano questa storia ai loro nipoti: c'è sempre pericolo che Mani rapisca altri bambini quando vanno a prendere l'acqua nel pozzo e si affacciano stupidamente per vederne il fondo. Anche Mani ed il suo seguito sono inseguiti da un lupo famelico: "Hati", "odio"o "nemico", figlio anch'esso della mostruosa megera. Si racconta anche di un gigante, un certo "Nórfi", uno dei primi che andarono ad abitare lo "Jötunheim". Egli aveva una figlia, "Nott", "notte", di una bellezza selvaggia, affascinante e terrificante nello stesso tempo, con una carnagione scura come la pece ed i capelli nerissimi. Nott sposò "Naglfari", "oscurante", e dalla loro unione nacque "Audhr", "spazio". Ma la gigantessa non si accontentò di un unico marito e convolò in seconde nozze con "Annarr", "secondo", dal quale ebbe una figlia che chiamarono "Jdrdh", "terra". Nott, però, non aveva ancora trovato quella che comunemente si chiama anima gemella e continuava a trascorrere notti inquiete. Infine conobbe "Dellingr", "giorno di primavera", e fu colpita dalla sua avvenenza, dalla radiosità del suo volto, specchio fedele dei nome che portava. Facevano davvero una coppia ben assortita: rappresentanti del sogno mai realizzato della fusione degli opposti. La felicità della coppia di giganti fu completata dalla nascita di un figlio, "Dagr" "giorno". Il fanciullo somigliava tutto al padre, tanto il suo colorito era candido e luminoso, i suoi capelli riflettevano i raggi del sole infondendo tutt'intorno un senso di beatitudine. Gli dèi vollero manifestare concretamente la loro esultanza per tanta bellezza e regalarono ai genitori deio magnifici destrieri ed un ricchissimo carro. I due cavalli erano tanto veloci da poter fare un giro della terra in solo dodici ore. Nott chiamò il suo destriero "Hrimfaxi" "gelida criniera", che alla fine della sua sgroppata quotidiana intorno alla terra lascia pendere dal suo morso dei sottili filamenti di bava che, adagiati sui fili d'erba, sono visibili ogni mattina ai mortali: è la rugiada mattutina. Non appena arriva Nott in sella al suo destriero, Dagr si lancia al galoppo con il suo "Skinfaxi" "luminosa criniera" e anch'egli, come la madre, cavalca per dodici ore, raggiungendo tutti i punti della terra. LA criniera del cavallo, fatta di filamenti molto più luminosi del fulgido oro, rimanda sulla terra la luce solare, illuminando tutti i luoghi attraversati dal gigantesco cavaliere.


 

Asgardh - La città divina

Asgardh, la città divina, il "recinto degli Asi" dove regnavano le divinità degli "Asi" comandate da "Odino". Nessun mortale poteva mettere piede nella dimora degli Dèi, potevano solo immaginare lo splendore e le ricchezze che ornavano la città. Qualcuno diceva di aver visto, in un giorno di primavera, in una radura al centro della terra, un altissima roccaforte, circondata da imponenti bastioni, da rupi scoscese e immani baratri che impedivano l'accesso agli intrusi inghiottendo gli imprudenti profanatori che osavano disturbare le sacre divinità. L'incauto spettatore rimase fulminato cercando di scorgere la cima della costruzione divina, i suoi occhi furono accecati dal sole che rifletteva i suoi raggi sulle enormi tegole d'oro masiccio che facevano da tetto alla roccaforte su cui sorge la cittadella divina Asgardh.

Fu costruita dagli Dèi quando crearono il mondo, aiutati da una schiera di aiutanti da loro scelti. Per prima cosa fabbricarono un padiglione immenso facendone un'officina dove vi posero una fornace. Qui vi forgiarono un martello, un paio di tenaglie e un incudine; questi furono i prototipi dei futuri utensili terrestri. In quell'antica epoca non veniva usato il vile ferro, ma solo metalli preziosi come l'oro che servì a costruire tutte le vettovaglie divine. Con i primi utensili forgiati, gli Dèi e i loro aiutanti si posero al lavoro al centro di Asgardh, nel luogo chiamato "Idhavöllr", eressero una maestosa dimora, la più grande di tutta la cittadella divina, venne chiamata "Gladsheim", "dimora della gioia". Al suo interno tra slanciate colonne d'oro, crearono un enorme salone dove posero tredici magnifici troni, su cui nei sacri concili, le varie divinità si siedono. Questi troni furono ornati con pietre preziose; uno di questi però spiccava tra gli altri per maestosità e perfezione, era quello di Odino, padre e signore degli Dèi. Anche per le Dee venne innalzato un palazzo dove potevano riunirsi, venne chiamato "Vingolf" "pavimento amico". Ad Asgardh, ogni divinità possedeva i sui palazzi ed i suoi terriotori, ognuno con caratteristiche adatte al suo padrone. Odino risiedeva a "Valaskyalf" "scoglio degli uccsi" nome che richiama la macabra attività del Dio, patrono dei morti in battaglia edei suicidi, che impiccandosi, gli consacravano la vita. Dal suo alto trono, "Hlindskyalf" può vedere tutto ciò che accade sulla terra. Il Dio della luce e dell'innocenza, "Balder" viveva a "Breidhablik "vasto splendore", la più luminosa delle dimore divine. Suo figlio "Forseti" risiedeva a "Glitnir" "lucente", in un palazzo sorretto da colonne d'oro con un tetto d'argento puro. Il posente "Thor" il più forte tra gli Dèi, era il signore di "Thrudvangar" "sentiri della potenza", dove sorgeva il palazzo "Bliskirnir" "lo splendente" che con le sue 540 sale era il più grande di Asgardh. "Njördhr" il protettore dei marinai, risiedeva a "Noatun" "dimora delle navi" (porto), mentre "Ullr", l'arciere degli Dèi, si aggirava cacciando degne prede per la mensa divina a "Ydalir" "valli dei tassi" dove oltre che la selvaggina tovava anche il legno adatto per i suoi magnifici archi. Ai confini di Asgardh, nei pressi del "Bifröst" "la tremula via" che collegava la cittadella divina al mondo dei mortali, si ergeva "Himinbjörg" la residenza del guardiano che aveva il compito di vigilare sui possedimenti divini: "Heimdallr". La bellussima "Freya", la divinità della bellezza e dell'amore, possedeva i vasti territori di "Folkvang" "campo dell'esercito", al cui centro sorgeva "Sessrumnir" "ricco di seggi", un palazzo che aveva una miriade di seggi destinati a raccogliere la metà dei guerrieri morti valorosamente in battaglia (l'altra metà dei guerrieri apparteneva a Odino). La sposa di Odino, la bella "Frigg", regnava a "Frensalir" "dimore del mare", mentre la sua rivale "Saga" che beveva a sua insaputa ogni giorno coppe di idromele con Odino viveva a "Sokkvadekkr" "torrente discendente". Asgardh confina con "Alfheim" il territorio degli Elfi chiari, misteriose creature "luminose come la luce del giorno" (al contrario di quelli scuri "neri più della pece" che risiedevano negli oscuri anfratti della terra). Ebbene, questa regione di folletti albini, sembra essere una dependance divina, dato che , com esi racconta "Freyr", bellissimo Dio della fecondità, invocato soprattutto dalle fanciulle desidrose d'amore, l'ebbe in dono quando mise il suo primo dente.

 

Valhalla - Il paradiso dei guerrieri

Il sogno di una morte vinta, sconfitta da un'immortalità conquistata con il proprio coraggio, è alla base della concezione nordica della Valhalla, "dimora degli uccisi". Mitico paradiso destinato ai guerrieri morti gloriosamente in battaglia, enfatizzato nelle opere wagneriane sino alla trasfigurazione, la Valhalla riassume ed esemplifica spazialmente molte ideologie arcaiche, in primo luogo quelle delle culture venatorie. Alcuni studiosi ritengono che il Colosseo romano sia stato il referente storico al quale si sono rifatti i nordici nel disegnare il tetro edificio che ospita gli einheriar, i "campioni".

Il pensiero di ogni guerriero 1nell'attimo prima di indossare le armi e prepararsi alla battaglia era dedicato alla Vaìhalla. Ognuno scacciava la paura della morte, che aggrediva anche il più prode dei guerrieri, pensando al maestoso edificio che si stagliava, luminoso ed inaccessibile, lassù nel cielo, in mezzo alle dimore degli dèi, in Asgardh. Le travi che sostenevano l'immenso palazzo erano fatte con le lance acuminate dei più temerari guerrieri; il tetto poi era ricoperto di rilucenti scudi d'oro, finemente istoriati con scene di guerra; gli arredi interni erano fatti con le vesti dei soldati che fino all'ultimo respiro si erano battuti, sprezzanti del pericolo, in guerra. Ma solo i guerrieri più valorosi, gli einheriar, i "campioni", potevano oltrepassare una delle 540 porte della Valhalla, porte grandiose: da ognuna di essa potevano passare ben ottocento guerrieri allineati spalla a spalla. E proprio presso una di queste entrate si poteva assistere allo spettacolo offerto da un abilissimo giocoliere, capace di lanciare in aria ben sette spade d'oro massiccio, affilate come rasoi, e poi riprenderle al volo. La porta principale, però, quella destinata ai guerrieri scelti da Odino stesso e da lui presidiata, si trovava ad occidente: è il Valgrind, un maestoso cancello chiuso ermeticainente con una formula magica. Prima di varcare il Valgrind, i meritevoli trapassati dovevano guadare a nuoto il fiume Thund, attraversato da correnti insidiose e i cui frutti, infrangendosi su rocce taglienti, rimbombavano cupamente tutt'intorno. Il cancello, poi, era sorvegliato da un lupo famelico, emblema della ferocia guerresca, e da un'aquila, possente signora dei rapaci, i volatili guerrieri per eccellenza. All'interno del palazzo a loro destinato, i "campioni"trovavano un grandissimo cortile in grado di accogliere la moltitudine di morti prodotti dalle innumeri guerre scoppiate dall'inizio dei tempi. Nel cortile avevano luogo quotidianamente dei combattimenti tra dei veri e propri zombies (tali sono infatti gli einheriar) che ovviamente erano immuni da ogni ferita. Inoltre i campioni si allenavano improvvisando giostre cavalleresche, per prepararsi alla suprema ed ultima battaglia che avrà luogo alla fine dei tempi, quando, insieme ad Odino, saranno chiamati a combattere contro gli oscuri abitanti di Muspellheim. Altri personaggi essenziali della Valhalla erano le Valchirie, "coloro che scelgono gli uccisi in battaglia". Semidivinità femminili, armate di scudo e di lancia, invulnerabili ed immortali, le Valchirie cavalcavano nell'aria, durante le battaglie, sempre al fianco di Odino, pronte a raccogliere gli spiriti degli eroici combattenti. Nella Valhlla, però, le straordinarie amazzoni erano le coppiere dei campioni, ai quali portavano coppe ricolme di spumeggiante birra. Le strenue servitrici dei protetti di Odino, e che occasionalmente erano anche loro amanti, avevano dei nomi che richiamavano lo spirito guerriero. Così c'era Urist, "colei che fa tremare"; Skdguì, "furente"; Hild, "guerriera"; Randgrindhr, "portatrice di scudi"; Geirahodh, "battaglia di lance"; Herfjótur, "vincolo delle schiere"; Gdìl, "rumorosa". Benché fossero passati a miglior vita, i guerrieri conservavano tutto il loro famelico appetito e la loro sconfinata sete. La moltitudine di eroi veniva sfamata quotidianamente dal cuoco Andhrimnir, "faccia di fuliggine", che ogni giorno cuoce il cinghiale Sdhrminir, dotato dello stupefacente potere di resuscitare ogni volta all'alba, pronto per essere nuovamente cucinato nel pentolone Eldhrimnir, la "fumosa". Come bevanda gli eroi, oltre alla birra, sorseggiavano in continuazione l'idromele che sgorgava a fiotti dalle poppe di Heidrunn, una gigantesca capra che, appoggiata con le zampe posteriori sul tetto della Valhalla, brucava le foglie del pino Lóradhr, epigono del frassino dei mondo. Il divino patrono degli einheriar, il sommo Odino, si nutriva, invece, esclusivamente di vino, uno squisito nettare preparato apposta per lui.

 

Hel - Il regno dei morti

La desolata e tetra topografia di Hel ricorda analoghi paesaggi presenti in lontane tradizioni mitologiche, come, ad esempio, quella greca. Ma i testi nordici presentano delle complesse trame mitiche che riguardano i misteriori abitanti di Hel, legandoli nel comune tragico destino che li travolgerà quando, alta fine dei tempi, lotteranno contro le forze del bene.

La terrificante visione di un paesaggio gelido ed avvolto in una nebbia impenetrabile è l'orribile destino che attende i morti per vecchiaia o per malattia oppure chi si è macchiato di gravi colpe (assassinio, adulterio, spergiurio). Essi non potranno godere la carne del cinghiale immortale o il divino idromele riservato agli scelti guerrieri ospiti della Valhalla: dovranno giacere nei meandri della terra, sotto i nove mondi, giù nelle profondità di Hel, il regno dei morti. Tra dirupi e voragini, accuratamente celata allo sguardo umano, una caverna oscura e profonda è l'entrata di Hel. La fessura aperta nella roccia, simbolo dell'altra faccia della Madre Terra, quella che custodisce i cadaveri, si chiama Gnipahellir, "grotta della rupe". Nei pressi della grotta si possono ascoltare i latrati terrificanti di Garmr, un cane mostruoso dalle mascelle portentose. Il petto del cane infernale è cosparso di sangue umano rappreso, macabra testimonianza di sfortunati tentativi di fuga: del resto, si sa, nessuno può sfuggire alla morte. Gnipahellir è solo la prima tappa di una lunga marcia, tutta in discesa, che condurrà all'oltretomba. Lungo il cammino si costeggia il fiume sotterraneo Gyoll, "urlante"o "echeggiante", i cui frutti sembrano riecheggiare le strazianti invocazioni dei trapassati. Ma rimane ancora molta strada: bisogna arrivare ad un ponte tutto d'oro massiccio che fa da cerniera con l'ingresso ai diversi settori di supplizio di Hel. Qui la fanciulla Modhgudhr controlla che i passanti abbiano il caratteristico paore cadaverico e che non siano, invece, degli incauti, anche se audaci, curiosi venuti a spiare i misteri dell'aldilà. Alla fine del ponte, dall'altro lato del fiume, è collocata la Porta di Hel, ultimo avamposto verso le regioni dei morti. La porta è presidiata da un gallo, le cui penne hanno un colore simile a quello della ruggine, simbolo cromatico del disfacimento dello spirito vitale. Li gallo, portiere infernale, sveglierà con il suo canto agghiacciante le schiere di morti ed i signori di Hel, chiamandoli a raccolta per l'estrema battaglia che li vedrà contrapposti alle divinità e agli ospiti della Valhalla alla fine dei tempi. La geografia interna di Hel è molto variegata, toccando nelle sue manifestazioni tutte le sfumature dell'orrido e del terrificante. £ presente, ad esempio, una dimensione marina: la "spiaggia dei morti", Nåstrond, luogo di pena destinato agli assassini, agli spergiuri e agli adulteri. I rei di tali infamie sono accumunati nel raccapricciante destino di vedersi continuamente sbranare da un orribile dragone, Nidhhóggr, e di essere tormentati da un groviglio di serpenti. Per raggiungere Nåstrond gli sventurati devono guadare a nuoto il fiume Slidhr, "terribile", nel quale non si agitano certo delle comuni onde d'acqua dolce, ma i suoi frangenti sono fatti di coltelli aguzzi e di spade affilatissime che feriscono orrendamente i già martoriati cadaveri. Sulla spiaggia infernale, inoltre, è allestito un tetro cantiere navale dove, immersi nel fetore dei cadaveri, schiere di esseri mostruosi sono addetti ad un'operazione ributtante: strappano via con forza le unghie dai corpi martoriati. Il sudicio materiale corneo viene utilizzato per costruire la nave Naglfar, repellente imbarcazione che trasporterà i "figli di Hel"verso il luogo dello scontro finale con le forze del bene. Ecco perché bisogna sempre tagliarsi le unghie con cura: solo così si ritarderà la consumazione finale del cosmo. Il paesaggio lugubre di Hel registra anche la presenza di montagne, Nidhafìoll, "monti dell'oscurità", le cui cime sono perennernente circondate da un alone di nebbia scura, tanto da farle apparire come un'oscura massa amorfa. Esse sono quotidianamente sorvolate da Nidhhoggr che trasporta, sulle sue possenti ali, le vittime dei supplizi di Nåstrond. Altro luogo di iminani sofferenze è Naigrindr, "porta dei morti". Essa è sorvegliata notte e giorno dal mostruoso gigante Hrimgrimnir, "dal cappuccio di gelo". Qui le Vilgemir, creature dei male di sesso femminile e solerti dispensatrici di dolori ed affanni, danno da bere urina di capra ai malcapitati ospiti, costretti cosi a ripensare al dolce idromele ed alla spumeggiante birra che viene servita nella Valhalla da leggiadre Valchirie. Oltre agli indenni trapassati, rei di crimini gravissimi per il diritto delle 9 genti nordiche, vi sono in Hei alcuni ospiti illustri, condannati dagli dèi a giacere nelle profondità infernali a causa dei loro misfatti, evitando cosi che commettessero altre infamie. Sull'isola Lyngi, proprio al centro del lago sotterraneo di Amsvartnit, tutti luoghi appartenenti alla geografia infera, giace incatenato il lupo Fenrir, capostipite di altri lupi famelici e nemico principale di Odino. Si dice che anche Loki, divinità usa a fare il male servendosi della sua scaltrezza nell'ordire inganni, fosse stato qui incatenato per essere punito della sua azione più malvagia: l'uccisione del dio Balder, l'innocente e candido figlio di Odino. Ma il personaggio centrale di tutto Hel è senza dubbio la sua regina, Hel, che dà il nome al regno. La regina è figlia di Loki e dell'orchessa Angrbodhra, "apportatrice di male", e fu sprofondata nelle viscere più profonde della terra dagli dèi, affinché gestisse le pene ed i tormenti da destinare ai vili. Orribile a vedersi, Hel ha un colorito a metà tra il cadaverico ed il roseo, in bilico tra vita e morte, tra rinascita e putrefazione: il suo sguardo è sempre rivolto verso il basso ad indicare la terra, depositaria di cadaveri, ma anche datrice di nuove vite. Hel abita a Eliudhnir, "freddo di nevischio", un palazzo privo di qualsiasi conforto, oblungo e scarno come una gigantesca bara. Altrettanto squallidi sono i servi della sua corte: Ganclati, "ozioso", e Ganglöt, "sciatta". La coppia di domestici, vestiti miseramente con abiti sdruciti, le apparecchia la tavola con vettovaglie dai nomi fortemente allusivi: il suo piatto, ad esempio, si chiama Hungr, "fame", mentre il suo coltello, vecchio e spuntato, Sulltr, "carestia". Del resto, per ricordare i nefasti doni che Hel manda sulla terra per avere sempre nuovi sudditi, il portone del suo palazzo si chiama "pericolo incombente"; il. suo letto "giaciglio di morte"e le coltri "disgrazia eccezionale".

 

DIVINITÀ

 

 

 

Asi e Vani

 

Nella mitologia nordica, così come è riflessa nelle fonti scritte, gli dèi appaiono divisi in due grandi gruppi. gli Asi ed i Vani. Ancora incerta rimane l'etimologia dei due nomi, risultando infondata l'antica tradizione che collegava Asi ad Asia (ipotizzando cioè una loro provenienza da quel continente). Un'ipotesi più recente, sebbene anchessa non confortata da definitive prove documentarie, fa risalire il nome all'antica radice germanica -ans (palo, trave) indicante anche le primitive raffigurazioni delle divinità nordiche scolpite nel legno. Più concordi sono gli studiosi sulla divisione funzionale delle due classi divine: gli dèi Vani simbolizzerebbero le potenze della fecondità e della fertilità, mentre gli Asi configurerebbero un universo mitico più stratificato e differenziato. In tale contesto si inserisce l'episodio della guerra tra i due gruppi divini avvenuta agli inizi dei tempi. Episodio che alcuni studiosi hanno inserito nel più ampio contesto della religione indoeuropea, ricollegandolo ad analoghi fatti presenti, ad esempio, nella tradizione romana ed indiana.

Quando l'oro era l'unico metallo conosciuto e la pace e la prosperità regnavano tra gli dèi Asi, arrivò ad Asgardh una seducente ed avvenente maga. Gullveig, «ebbrezza dell'oro», era il nome della bellissima e misteriosa donna. Ella si aggirava tra gli dèi seminando in continuazione discordia ed ingenerando invidie ed odii, spingendoli più di una volta a litigare tra loro. Gullveig, infatti, era maestra nella magia seidhr, l'arte magica più malefica, quella che induce a compiere i più orrendi misfatti. E ben presto la maga, venuta non sì sa da dove, iniziò a corrompere gli animi delle dee, pilastri della moralità e dell'onore degli Asi. Gli dèi allora si riunirono e dopo un'infuocata discussione, evidentemente c'era tra di loro chi non voleva rinunciare alle grazie femminili di Guliveig, condannarono a morte la strega. Proprio al centro della Valhalla fu eretta una pira fatta con delle lance acuminate e, dopo aver appiccato le fiamme, vi condissero la femmina fatale. Ma per ben tre volte la donna uscì indenne dal rogo: il suo sorriso beffardo riempì di terrore e stupore gli dèi, spettatori increduli di un simile prodigio. Alla fine però le fiamme consumarono il suo corpo, e di Guìlveig non rimase altra traccia che le sue ceneri spazzate via dal vento. Ora, sembra che Guilveig fosse parente di uno deglì dèi Vani, l'altra famiglia divina che viveva a Vanaheim. E, apprese le notizie incerte provenienti da Asgardh, i Vani mandarono degli ambasciatori presso gli Asi, chiedendo l'immediata restituzione della loro affascinante congiunta. Odino, dio sommamente sapiente, comprese la manovra dei Vani e le segrete ragioni dell'invio di Gullveig tra loro: ella era stata inviata dai Vani per avere un motivo per attaccarli, un vecchio stratagemma che proprio non si sarebbe aspettato da divinità così degne e famose! Ma, conscio del valore e della potenza degli Asi, Odino non si tirò indietro e annunziò, senza mezzi termini, che avevano giustiziato la strega in pubblico per punirla delle sue malefatte. I Vani, ovviamente, aspettavano solo questo: avevano architettato con cura la fabbricazione del fraudolento casus belli e, senza aspettare improbabili scuse, dichiararono guerra agli Asi. Per nulla intimoriti, gli Asi si recarono, guidati da Odino, a Vanaheim: qui, secondo gli arcaici rituali, il padre degli dèi scagliò con forza una lancia nel territorio nemico, dichiarando con la sacralità di quel gesto che le ostilità potevano avere inizio. Mai prima di allora l'universo era stato funestato dagli orrori di una guerra, mai si erano visti simili distruzioni e tanto spargimento di sangue. Sia gli Asi che i Vani combatterono con orgoglio e determinazione, ma dai fragorosi scontri non uscivano né vinti né vincitori: le sorti della guerra rimanevano in costante equilibrio, testimoniando il reciproco valore. Un giorno però, i Vani con i loro sortilegi riuscirono a frantumare le mura di Asgardh. Di fronte a tanta rovina, stanchi di una lotta quasi fratricida combattuta tra dèi di pari dignità, le due famiglie rivali decisero di riporre le armi e le magie malefiche e di stipulare un trattato di pace equa. Si vide allora uno spettacolo grandioso: decine di divinità accompagnate dai loro servitori, abbigliate con le vesti più sontuose, cavalcando destrieri sfarzosamente bardati, che si recavano ad un supremo summit per definire le condizioni della pace. Dopo estenuanti trattative, decisero che la cosa migliore fosse scambiarsi degli ostaggi: solo così si poteva garantire il rispetto della tregua. E quindi Hoenir e Mimir, due Asi, andarono a vivere tra i Vani; mentre Njórdhr e suo figlio Freyr si recarono tra gli Asi. In questo modo le famiglie divine avrebbero avuto modo di conoscersi meglio, imparando ad apprezzarsi reciprocamente e forse, in un futuro più o meno lontano, i due gruppi avrebbero potuto anche fondersi in un'unica grande compagine divina. Per suggellare il loro patto, i rappresentanti degli Asi e dei Vani si fecero portare un otre capace e vi sputarono dentro, sigillando con saliva divina la riconquistata pace. Ma non si accontentarono: pronunciarono delle formule misteriose e dall'otre, divenuto un magnifico utero di creta, nacque Kvasir, la creatura più saggia dell'universo, vivente testimonianza dei divini accordi.

 

Odino - Il Dio dai mille volti

Dio dagli innumerevoli appellativi, ognuno dei quali richiama una sua impresa o caratteristica, Odino è, in primo luogo, il padre degli dèi e degli uomini. L'etimologia del suo nome rimanda ad una ben definita connotazione caratteriale: Odino, sia nella forma norrena Voden che nell'antico alto tedesco Wuotan ed in quello basso Wodan, come pure nell'antico inglese Woden, significa «furore». Significato conservatosi, del resto, nel tedesco moderno Wut (rabbia, furia). La sfera d'azione simbolica dei dio non si esaurisce in quest'unica direzione, ma abbraccia molti ambiti dell'agire umano, assumendo, di volta in volta, i caratteri del dio padre, psicopompo, ispiratore dei poeti oppure depositario di una saggezza misterica.

Tremende urla selvagge rintronavano da lontano, giungendo alle orecchie dei soldati terrorizzati ed intimoriti: esse annunciavano, con la loro bestialità, l'arrivo di indomite schiere di feroci guerrieri assetati di sangue come dei lupi discesi dalle montagne innevate. I soldati, ormai intontiti ed accecati dalla paura, sapevano che si sarebbero trovati di fronte ad esseri metà uomini e metà bestie feroci che, sprezzanti dei pericolo ed incuranti delle ferite, si precipitavano in battaglia senza armatura, mordendo i loro scudi come degli assatanati, uccidendo chiunque si parasse loro innanzi. Questi oscuri dispensatori di morte e di distruzione erano forti come orsi o tori selvaggi e né fuoco né ferro avevano effetto su di loro. Indossavano solo pelli d'orso o di lupo, che contribuivano ad accentuare il loro aspetto di sinistri ambasciatori del male. Gli animaleschi guerrieri, personificazioni della furia annientatrice, erano i mitici berserkir "quelli vestiti di pelli d'orso", e gli ulfhednir, "quelli vestiti con pelli di lupo". Appartenevano ad alcune società cultuali dedicate ad Odino, nella sua valenza di dio della guerra. I membri di queste società, vere e proprie sette, si sottoponevano a crudeli riti di iniziazione, ingurgitando, a quanto sembra, anche sostanze ìnebrianti e facendo uso di droghe capaci di renderli insensibili al dolore fisico. Ed è in tali sostanze stupefacenti che va forse ricercata la fonte dell'eccezionale carica distruttiva che caratterizzava il loro delirio bellico il furor bersercicus, come è stato definito. Ma le armi che Sigfodhr, "padre della vittoria", uno degli appellativi di Odino, usava per favorire i suoi protetti non erano certo onorevoli: con dei sortilegi imbrigliava le armi del nemico immobilizzandole nelle loro mani, rendendo vano ogni tentativo di valorosa difesa. Oppure accadeva che, all'improvviso, i guerrieri fossero accecati e, non scorgendo nemmeno il nemico, perissero miseramente trafitti dalle lance dei "raccomandati" di Odino. A questo aspetto del dio allude molto chiaramente un altro suo appellativo: Herblindi, l'«accecatore dei guerrieri». Del resto, in simili casi, c'è sempre l'altro aspetto, quello di chi gode, e si ringraziava Hertier, il «rallegratore dell'esercito», quando si usciva vittoriosi da una battaglia. Ma Odino era estremamente capriccioso, pronto a ritirare il suo appoggio da un momento all'altro senza un motivo apparente, funestando i suoi protetti con dispetti mortali. Ma lo spirito di Odino aleggiava soprattutto dopo la battaglia, quando le sue emissarie femminili, le Valchirie, montando cavalcature alate, scendevano sui rutilanti terreni di scontro e prelevavano i corpi dei valorosi che ineritavano l'ingresso alla Valhalla, il paradiso dei prodi. Ecco perché Odino è chiamato Valfódhr, "padre degli uccisi", poiché colui che muore coraggiosamente in battaglia, il val, diventa suo figlio adottivo. Tale suo carattere di divinità psicopompa è alla base della sua identificazione con Mercurio nell'interpretatio romana di Tacito. Identificazione che vediamo agire anche nella traduzione nordica del dies Mercurii (il nostro Mercoledì) reso da alcuni popoli nordici come "giorno di Woden" (si veda anche l'inglese moderno Wednesday). Nelle vene del dio padre di tutti gli dèi scorreva anche il sangue non certo divino dei giganti. Odino infatti nacque, all'inizio dei tempi, dalla gigantessa Bestla, sposa di Bor, figlio dei primordiale essere androgino Buri, plasmato dalla lingua della vacca Adhumula nel ghiaccio salato che avvolgeva il cosmo. In quei tempi oscuri Odino aveva anche due fratelli, Vili e Vé, suoi complici nell'uccisione di Ymir, il macroantropo che, con il suo colossale cadavere, fornì la materia prima per la creazione dell'universo. Odino in seguito, bramoso di potere, si macchiò dell'orrendo crimine di fratricidio, eliminando cruentemente gli ormai scomodi fratelli e divenne il signore assoluto di Asgardh. Sua sposa è Frigg, dea della fecondità e della fertilità, con la quale generò tutti gli altri dèi tranne Thor, primogenito nato da un suo lungo flirt con Jørdh, la "madre terra". Dimora di Odino in Asgardh è Valaskyalf, "scoglio degli uccisi", dove, assiso sul trono Hlindskyalf, scorge tutto ciò che accade nel mondo. Complessa figura mitica, stratificazione di vari ed opposti valori simbolici, Odino è anche il dio della saggezza. Si racconta che il dio per bere alla Fonte di Mimir, la portentosa sorgente di ogni sapere posta nei pressi di una delle radici di Yggrdrasil, abbia dato in pegno un suo occhio all'oscuro guardiano della fonte. L'occhio divino giace da allora nelle acque gelide della sorgente, doloroso prezzo pagato per acquisire una vista più preziosa: lo sguardo del saggio che sa scorgere dietro le apparenze l'essenza delle cose. L'amore per la sapienza e l'ansia di comprendere i più reconditi misteri spinsero Odino a sottoporsi ad un altro cruento rituale. Il padre degli dèi si impicca, "sacrificandomi a me stesso", come dice, ad un ramo dell'albero del mondo, il frassino Yggrdrasil. Per nove giorni e nove notti il dio penzola privo di conoscenza appeso al sacro arbusto. ma non è soddisfatto. Con una lancia si infligge una ulteriore tortura, colpendosi e ferendosi duramente. È la cosiddetta "ferita di Odino", il segno inciso nella viva carne a testimoniare l'appartenenza al dio, ferita che molti guerrieri si procuravano nel tentativo di ingraziarselo. La mente del dio, mentre il suo corpo emaciato pativa immani sofferenze, era libera di vagare alla ricerca di nuovi orizzonti, eliminando le anguste frontiere del già noto. In questo viaggio, simile per molti aspetti a quelli sciamanici ed a quelli più profani indotti dalle droghe pesanti, Odino vide le rune, le iscrizioni dotate di particolari poteri magico-divinatori, e se ne appropriò, raccogliendole da terra. A tale episodio si ricollegano appellativi come "dio degli impiccati"ed una serie di testimonianze che sembrerebbero provare l'esistenza di sacrifici umani tributatigli durante misteriose cerimonie. Molto spesso una noia tremenda assaliva Odino, rendendogli irrespirabile la divina aria di Asgardh, facendogli desiderare il contatto con i comuni mortali. Allora si divertiva a girovagare sotto false spoglie per il mondo, stupendo o terrorizzando chi lo incontrava. E sebbene fosse il più importante degli dèi, usava travestirsi da vecchio, indossando un abito che aveva conosciuto tempi migliori, tutto sdrucito e senza una manica. Vafudhr, il "vagabondo", uno degli appellativi assunti da Odino in tali peregrinazioni terrene, si avvolgeva, per proteggersi dal freddo, in un ampio mantello turchino e si appoggiava ad un nodoso bastone con la punta di ferro: nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quel vecchio orbo, con una lunga barba grigia incolta, con il viso seminascosto da un cappello floscio a larghe tese fosse il dio invocato dai guerrieri, il signore di tutti gli dèi. In altre occasioni, quando si richiedeva la sua presenza "ufficiale", ad esempio, nelle sacre riunioni ai piedi del frassino Yggrdrasil, Odino sapeva sfoggiare tutti gli attributi conferitigli dal suo rango e valore. Allora cavalcava il magnifico destriero Sleipnir, "che sdrucciola", uno stallone grigio con otto zampe, dotato della straordinaria facoltà di galoppare sia sulla terra che in cielo, sfrecciando più veloce del vento. L'eccezionale animale era il frutto della singolare unione dell'astutissimo dio Loki, abilissimo nelle metamorfosi animali, con il portentoso stallone Svadhilfari. Sulle spalle di Odino sono appollaiati due superbi corvi: Hugin, "pensiero"e Munin, "memoria". Ogni giorno, alle prime luci dell'alba, i neri volatili si alzano in volo raggiungendo le più remote regioni della terra e al loro ritorno, all'imbrunire, riferiscono al loro padrone tutto ciò che hanno visto e sentito. Grazie ai due pennuti ricognitori il dio è costantemente informato degli avvenimenti mondani. Ai fianchi dei dio supremo degli Asi, preannunciati dai loro tremendi ululati, avanzano minacciosi, con le enormi fauci spalancate, Geri, "ghiottone", e Freki, "vorace", due famelici lupi che simbolizzano la furia battagliera degli ulfhednir. Odino brandisce una splendida spada, la famosa Gungnir, forgiata dai nani Brokk e Sindri. Implacabile strumento di morte, l'arma divina, una volta scagliata nel mezzo di una battaglia, continuava da sola a colpire all'infinito, dispensando orrende menomazioni agli sfortunati nemici dei dio. Gli abilissimi nani artigiani e fabbri, creatori della magica spada, donarono al dio anche l'aureo anello Draupnir, "che gocciola", fornito della stupefacente proprietà di autoriprodursi ogni nove notti in otto esemplari di identico peso e bellezza. L'inestimabile gioiello, fonte di infinite ricchezze, sarà posto, come aureo viatico per il triste viaggio nell'aldilà, sulla pira funebre del bellissimo Balder, lo sfortunato figliolo di Odino ucciso dalla malvagità e dall'invidia di Loki. Sembra che Odino custodisse gelosamente una macabra reliquia, testimonianza del suo amore paterno: la testa di Mimir, il dio che insieme ad Hoenir fu inviato tra i Vani come pegno di pace dopo la lunga guerra tra le due famiglie divine. I Vani erano soliti chiedere consigli al saggio Hoenir, ma questi accettava di rispondere ai loro quesiti solo se poteva consultarsi con Mimir, irritando non poco i signori di Vanaheim. Un giorno, stufi di attendere sempre l'arrivo del dio, lo decapitarono, eliminando cosi i contrattempi che imponeva ai loro consulti con Hoenir. Odino, padre degli dèi e quindi anche di Mimir, si precipitò nel regno dei Vani e, colmo di disprezzo e di dolore, si fece consegnare il capo crudelmente reciso. Ritornato ad Asgardh, il dio cosparse di erbe magiche la testa e, recitando delle litanie a lui solo note, riusci a non farla imputridire. Da allora, nei momenti di necessità, Odino conversa con la testa mummificata, intonando cantilene magiche e chiedendole consigli sulla condotta da tenere. Ed è proprio con la testa di Mimir che Odino si consulterà quando, avvicinandosi ormai la fine dei tempi, guiderà gli dèi ed i suoi guerrieri contro le schiere demoniache. Ma a nulla gli serviranno i suggerimenti del decollato: nonostante le sue arti magiche e la sua sapienza misterica il padre degli dèi perirà, inghiottito nelle possenti fauci del lupo Fenrir.

 

Frigg - La signora degli Dèi

Già nella traduzione norrena del dies Veneris, il nostro Venerdì, così come è rinvenibile nell'antico alto tedesco Friatac, oppure nell'inglese moderno Friday e nel tedesco Freitag, appare documentata l'esistenza nel pantheon nordico di una divinità femminile caratterizzata dai medesimi attributi della Venere romana. La maggioranza degli studiosi è concorde nell'identificare tale dea con Frigg, la sposa di Odino. Seguendo la tradizione dei padri, il giorno consacrato alla celebrazione dei matrimoni, all'unione feconda e legale dei sessi per perpetuare le generazioni, era il Venerdì, lo stesso giorno consacrato alla dea Frigg. La "signora degli dèi", come la chiamavano i poeti, avrebbe vegliato sulle giovani coppie, infondendo loro l'esaltante energia vitale, i preziosi umori portatori dei germi di nuove vite. E, confidando in un suo benevolo intervento, le spose il cui grembo era rimasto sterile oppure quelle che non avevano ancora goduto i frutti dell'amore, si rivolgevano a Frigg, madre ed amante primigenia. La dea, che ben conosceva le pene e gli affanni che si provano per i figli, assisteva le partorienti, alleviando i dolorosi spasimi della gestazione. Celeste sposa di Odino, Frigg poteva fregiarsi del titolo di "signora del cielo", appellativo degno della compagna del più importante degli Asi. Oltre a condividere con Odino il prestigioso seggio Hlindskialf, "vetta, torre di guardia", la dea aveva a sua disposizione una splendida dimora a Fensalir, "sala della palude", una delle regioni di Asgardh. La sposa di Odino aveva ai suoi ordini due ancelle, Fulla e Hlin. La prima custodiva, gelosamente riposte in una solida cassettina di frassino, le fatate calzature della dea, lustrandole in continuazione e badando che fossero sempre lucide e splendenti come la luce del sole. La seconda ancella, anch'ella dotata delle magiche virtù di una divinità, era l'ambasciatrice dei desideri della dea sulla terra e soccorreva i guerrieri protetti da Frigg. Avvolta nel suo manto di penne di falco, la "signora degli dèi"poteva sfrecciare nel cielo azzurro, lasciandosi dietro nient'altro che il fruscio impercettibile di migliaia di minuscole penne. E sebbene quel portentoso indumento avesse un valore inestimabile, la dea, dando prova della sua magnanimità, lo aveva prestato più di una volta a Loki, facendogli provare i soavi piaceri della leggerezza del volo. Dei resto fu proprio grazie al mantello fatato che gli Asi poterono affrontare i giganti, eterni nemici degli dèi, andandoli a sfidare nei loro territori e recuperando tesori che si credevano irrimediabilmente perduti. Eppure, non rinunciando alla sua innata sfacciataggine, il maligno Loki, una volta, proprio nella sala dove era riunito il sacro concilio degli Asi, aveva osato chiamarla ninfomane, instancabile inseguitrice di perversi appetiti sessuali. E, continuando ad infangare a dismisura l'onore del padre degli dèi, l'aveva accusata della più turpe forma di adulterio, affermando di averla vista mentre accoglieva nella sua alcova peccaminosa i due fratelli di Odino, Vili e Vé, consumando con loro quello che per il diritto nordico era un ignobile incesto. Ma tutti conoscevano il trepido affetto che la legava a Balder, sfortunata vittima degli oscuri disegni del destino. Quando aveva appreso dei tristi sogni, presagi di future sciagure, che angosciavano il figlio, Frigg non aveva avuto più pace e con indomita volontà aveva percorso l'universo intero, tentando di sottrarlo alla morte. Anche quella volta fu ingannata dal perfido Loki al quale, fiduciosa ed ingenua, aveva confidato il segreto dell'invulnerabilità di Balder. E a lungo pianse la "signora divina", prigioniera dei rimorso, quando seppe che proprio la sua leggerezza aveva consentito a Loki di ordire la sua trama mortale. Frigg era dilaniata dal dubbio atroce di essere stata complice dell'assassino del figlio: i suoi lamenti, strazianti ed interrotti soltanto dai singhiozzi, giungevano da Fensalir fino ai confini estremi di Asgardh, testimoniando il suo incolmabile dolore.

 

Thor - Il Dio forte

Baluardo e difensore della società divina, costantemente impegnato in duri combattimenti contro malvagi giganti, Thor è innanzitutto il dio più forte, quello maggiormente dotato di una potenza muscolare tutta terrestre. Probabilmente fu proprio questo suo carattere di forzuto protettore degli dèi e degli uomini e di strenuo avversario di esseri mostruosi afarlo identificare con Ercole nell'interpretatio romana di Tacito. Tuttavia l'ampio spettro dei suoi protettorati simbolici e l'eccezionale diffusione del suo culto portarono a tradurre il nome del giorno a lui consacrato nell'antica settimana nordica come dies Jovis, attribuendogli, così, la stessa importanza e funzione del Giove romano.

Un fragoroso boato, preceduto da accecanti scintille, preannunciava il passaggio del carro dei possente signore del tuono e delle saette, il primogenito di Odino e Jördh: il rosso Thor. Maestosamente assiso sul cocchio, il dio frusta con veemenza i suoi due capri, Tanngnjostr, "che fa scricchiolare i denti", e Tanngrisnir, "che fa stridere i denti". I due splendidi esemplari, non ancora privi della loro anima selvaggia, erano i simbolici arrecatori di perturbazioni temporalesche, sinistramente annunciate dal rumore delle loro mandibole in continuo movimento. Una fluente barba d'un rosso cupo ed una lunga chioma rossiccia incorniciavano il volto eternamente corrucciato dei dio. I suoi occhi, seminascosti dalle spesse e prorninenti sopracciglia fuive, avevano lo stesso intenso colore della brace ardente. I bicipiti possenti, particolari di una muscolosa e colossale corporatura, completavano il ritratto delle umanissime sembianze di Thor. L'armamentario magico del dio comprendeva una portentosa cintura capace di raddoppiare all'occorrenza la sua già eccezionale potenza muscolare. Le sue mani nodose, avvolte in magici guanti di ferro, stringevano il corto manico del martello Mjölnir, "maciullatore", onnifrantumante arma, inestimabile strumento d'offesa contro malefici mostri e giganti. Una volta lanciato in aria e frantumato il suo bersaglio, lo straordinario martello ritorna nelle mani di Thor come un insolito, ma ben più devastante, boomerang. Mjölnir, nella sua qualità di arma celeste, è anche un simbolo del fulmine, necessario preliminare luminoso ai tuoni ed alle precipitazioni atmosferiche. Ecco perché il rosso gigante era tanto venerato dai contadini, che vedevano in lui il signore delle piogge, importante elemento per il conseguimento di un buon raccolto. E, a mo' di pendagli appesi a rozze catenine, piccoli martelli ornavano i colli dei figli dei contadini per proteggerli dalle potenze maligne. Del resto, per rimanere nella sfera agraria, Thor aveva sposato Sif, la dea della fertilità dai capelli dorati come le spighe mature, immagine risplendente dell'abbondanza delle messi. Con la sua sposa Thor divide i possedinienti di Thrudvangar, "sentieri della potenza", dove abita nell'immenso palazzo Bilskirnir, "risplendente", uno dei più grandi di Asgardh, con le sue 540 sale riccamente arredate. Un dio così esuberante, incarnazione dell'energia vitale, non poteva certo accontentarsi di una sola donna, seppur bellissima: si conoscono numerosi suoi amori con comuni mortali e con gigantesse. Ma un solo incontro fu importante per Thor: quello con la gigantessa Jarnsaxa. Dall'unione con la donna appartenente alla razza dei suoi nemici per eccellenza Thor ebbe due figli: Modhi, "coraggio selvaggio", e Magni, "potenza colossale", ed una figlia, Thrudhr, "forza". E quando, alla fine dei tempi, Thor cadrà vittima delle esalazioni asfissianti del Serpe del mondo, saranno i suoi figli Modhi e Magni a prendere in consegna il mitico martello, portandolo nella nuova cittadella divina, consci che la pace e la prosperità vanno difese con la forza.

 

Balder - Il cavaliere senza macchia

Figura altamente funzionale per le dinamiche simboliche interne della società divina nordica, Balder è l'incarnazione dell'innocenza immacolata, tradita però dalla malvagità altrui. In tal senso, al di là delle antiquate interpretazioni frazeriane che scorgono nella sua vicenda il fantasma di arcaici rituali presenti in culture più o meno "primitive", l'innocente figliolo di Odino può considerarsi la proiezione mitica di quel particolare pessimismo che contraddistingue, del resto, la tragica visione del mondo propria dell'antica cultura nordica. Nei tiepidi giorni primaverili, quando il sole carezza dolcemente le pendici dei monti, fioriscono gli esili filamenti di un'erba candida, rara a trovarsi come tutte le terrene testimonianze della perfezione divina. Gli antichi poeti nordici, profondi conoscitori di arcane corrispondenze simboliche, chiamavano quest'erba "sopracciglia di Balder". Essi, però, sapevano bene che, con il loro paragone, potevano descrivere solo con approssimazione l'eccezionale candore e l'incontarninata purezza dell'epidermide divina. Figlio prediletto di Odino e di Frigg, il "signore"tra gli dèi, questo era il suo appellativo, irradiava con la sua sola presenza, una luce di strabiliante chiarezza, "illurninando d'immenso" la cittadella divina. Incomparabile emanazione visiva delle nobili virtù che albergavano nell'animo di Balder, questa aura luminosa non era disgiunta da un corpo di grande bellezza, sintesi armoniosa di leggiadri tratti sognatici. Il cuore di Balder non era mai stato sfiorato dalle bassezze, dalle volgarità e dalle cattiverie che, talvolta, trovavano posto anche tra gli dèi: egli era il più benigno, immune da ogni malvagità ed alieno da ogni malizia. Eppure, nei suoi gesti, nelle sue parole non trovava mai espressione il compiacimento di sé, l'irritante sicurezza che inficia qualsiasi perfezione. Con estrema raffinatezza e garbo, costruendo frasi simili a merletti fatti di parole ed aggettivi, Balder esprimeva pacatamente le sue opinioni, non disdegnando le futili conversazioni. Ma, tragico segno di un destino crudele, i suoi consigli, maturati con serenità e conoscenza, non venivano mai seguiti, scontrandosi forse con la serpeggiante invidia che lo circondava. Insieme a Nanna, sua inseparabile compagna nella vita e nella morte, Balder risiedeva nei celesti territori di Breidhablick, "che risplende lontano", dove nulla era opaco: ogni cosa mostrava, mediante la sua trasparenza, la sua intima natura. Qui le rune inalefiche non avevano efficacia, poiché nulla d'impuro vi poteva penetrare. Dio della bellezza fisica associata, però, alla bontà d'animo, Balder era il padre di Forseti, il nume tutelare della pace tra gli uomini, l'appianatore di ogni controversia, il dissipatore d'ogni malinteso. Altri appellativi di Balder scandivano le tristi sequenze finali della sua vita, sulla quale incombeva, come un'irrevocabile sentenza, un doloroso destino. Balder era chiamato il "nemico di Hódhr", il cieco che, istigato da Loki, lo uccise con un rametto di vischio, violando così l'invulnerabilità procuratagli dalla madre. E ancora, in rapida successione: era il "possessore di Hringhorni", l'enorme vascello sul quale venne eretta la sua pira funebre; "padrone di Draupnir" perché il magico anello di Odino fu posto sul suo cadavere quale estremo viatico per il viaggio nell'oltretomba; "compagno di Hel", visto che al suo arrivo nel regno infernale Hel lo pose al suo fianco, invitandolo a regnare insieme a lei sui trapassati. Ma l'appellativo più triste, quello che riassume la tragicità estrema di tutta la sua vicenda, era senz'altro "dio delle lacrime", perché l'unica condizione posta da Hel per restituirlo al mondo dei vivi fu che tutti piangessero la sua morte: solo Loki, assumendo vigliaccamente le sembianze di una vecchia megera, non pianse, condannando Balder ad un tetro esilio. Nonostante le sofferenze patite, Balder conserverà la sua bontà e sarà pronto, dopo la distruzione del vecchio universo, a fondare una nuova e più giusta società divina.

 

Tyr - Il signore delle battaglie

Antichissima divinità uranica, il suo nome risale alla stessa radice indoeuropea di «cielo splendente», Tyr in origine doveva essere ilpiù importante degli Asi, avendo le stesse funzioni di divinità analoghe come Zeus e Juppiter. Posteriormente, all'epoca della formazione dei nomi della settimana nordica, divenne un dio della guerra, identificato dai romani con il loro Marte. E difatti gli odierni Tuesday inglese e Dienstag tedesco, sono i diretti discendenti di tale dics Martis nordico.

Negli attimi che precedevano la battaglia gli intrepidi guerrieri si muovevano nervosamente, stringendo con malcelata angoscia le luccicanti spade. In quei momenti carichi di tensione essi rivolgevano i loro ultimi pensieri a Tyr, il signore delle battaglie, nume tutelare della giusta vittoria. E, quasi a voler esorcizzare il pericolo di una morte sempre incombente, incidevano sulle else delle spade e delle lance le rune del nome divino: segni indecifrabili per i non iniziati, ma dotati di un potere immenso. Su quelle armi dedicate al dio i guerrieri, animati dal più profondo rispetto, si chinavano pronunciando tre volte il nome di Tyr, invocando la sua protezione e la vittoria. Tyr, però, non era il signore dello scontro sanguinario, della violenza esasperata e dell'efferatezza bellica: egli era il supremo protettore della guerra intesa come estrema soluzione di una contesa tra due parti. Dio della guerra, quindi, ma anche dio dei diritto. Tragica proiezione di una atavica concezione della giustizia, intesa pessimisticamente non come incruenta conciliazione delle parti, ma come scontro armato. E proprio come in un tribunale, i litiganti nei loro combattimenti seguivano delle precise regole, fissando luogo e data della battaglia. Come in un duello e perciò le guerre erano spesso definite «duelli giudiziario, i litiganti si impegnavano a rispettare l'esito della disputa: chi vinceva era dalla parte della ragione, della giustizia.

I Romani ben interpretando le funzioni di Tyr, lo chiamarono Mars Thingus, il «Marte del thing», l'assemblea popolare intrisa di foia guerresca dove si dibattevano questioni giuridiche. Nel thing si brandivano lunghe lance, singolari portavoci della volontà popolare, che venivano alzate o abbassate in segno d'assenso o di dissenso. Frequentemente però, le dispute lasciavano il terreno più o meno innocuo del thing e venivano trasferite sul campo di battaglia dove, per usare una perifrasi cara agli antichi poeti nordici, aveva luogo lo Schwertding, il «thing delle spade», durante il quale Tyr scriveva con il sangue dei vinti la sua sentenza. Gli antichi, per dimostrare il coraggio e l'abnegazione del dio, raccontavano come egli avesse perso la mano destra, divenendo monco. Infatti, al pari di Odino, Tyr aveva dovuto pagare la sua eccezionalità con una parte dei suo corpo, mutilandosi senza il pur minimo lamento. Accadde che, agli inizi dei tempi, Loki, il dio degli inganni, generò con la gigantessa Angrbodha,
la sinistra «apportatrice di male», lo spaventoso lupo Fenrir, feroce bestia dalle fauci micidiali. Nei primi tempi il lupo si aggirava nella cittadina divina, terrorizzando non poco gli abitanti di Asgardh. E naturalmente nessuno aveva il coraggio di portargli da mangiare: solo Tyr, intrepido e incurante del pericolo, si azzardava ad allungargli ricchi bocconi. E così, in brevissimo tempo, Fenrir assunse dimensioni gigantesche, divenendo sempre di più fonte di panico per gli dèi. Inoltre sinistre profezie circolavano sul suo conto: si diceva che alla fine dei tempi avrebbe sbranato Odino e dilaniato altre divinità. Preoccupati, temendo per la propria sorte, gli dèi si riunirono in consiglio e deliberarono di legare strettamente il lupo e di esiliarlo in una remota località, quanto più lontano possibile dai territori divini. Odino in persona si occupò della faccenda e, senza perdere attimi preziosi, fece fabbricare dai suoi fabbri una catena robustissima, con maghe di ferro spesse e pesanti. Gli Asi, portando con loro la catena che chiamarono Loedhingr, si recarono da Fenrir e lo convinsero a farsi legare, dicendogli che volevano mettere alla prova la sua forza. Quando gli dèi videro l'animale avvolto nelle spire metalliche, pensarono di essersi finalmente liberati di lui. Ma con sommo stupore videro Fenrir liberarsi dalla sua momentanea prigionia con un unico piccolo strattone. E dimenando la coda e digrignando le zanne candide, quasi a voler atteggiare il suo muso in un ghigno beffardo, il lupo allontanò Loedhingr con le zampe posteriori e riprese, fiero di sé, a terrorizzare gli Asi. Gli dèi, offesi e sempre più impauriti, commissionarono ai fabbri una seconda catena, più pesante e spessa della prima. Questa seconda catena poteva ben dirsi un capolavoro di solidità, con quegli anelli simili a macigni bucati, finemente forgiati dai migliori fabbri. Sicuri che un tale ferreo vincolo avrebbe immobilizzato per l'eternità l'immonda bestia, gli dèi si recarono nuovamente da Fenrir. Mostrandogli Dromi, questo il nome della nuova catena, lo sfidarono a dimostrare su tale impegnativo banco di prova la sua forza ed il suo coraggio. Il lupo, osservando Dromi, si rese conto della consistenza dei pesanti anelli metallici e, temendo una sconfitta, pensò in un primo momento di non sottoporsi alla prova. Ma stuzzicato dalle battute degli dèi che lo accusavano di codardia e confidando nella sua accresciuta potenza muscolare, Fenrir accettò la sfida. Questa volta il lupo, che ansimava vistosamente sotto il peso di Dromi, sembrava definitivamente sconfitto: l'abilità dei fabbri aveva avuto la meglio sulla forza bruta della belva, imbrigliandola in un inestricabile groviglio, in una trappola metallica senza scampo. Fenrir, però, non si dava per vinto e, raccogliendo tutte le sue energie ed incanalando la sua rabbia in uno sforzo estremo, si scosse con incredibile violenza: la catena si spezzò! I pesanti frammenti, veri macigni metallici, volarono tutt'intorno, cadendo al suolo accompagnati da fragorosi boati e scavando profonde cavità. La bestia malefica, dando fondo alle sue forze, si era liberata sia da Loedhingr che da Dromi. Tali avvenimenti mitici trovano la loro eco negli arcaici modi di dire nordici: «liberarsi da Loedhingr» oppure «sciogliersi da Dromi» significa trarsi d'impaccio anche nelle situazioni più ingarbugliate. Sembrava che nulla e nessuno potesse fermare il lupo che continuava ad aggirarsi minaccioso nella dimora degli dèi in tutta la sua imponenza. Odino, conoscitore della somma sapienza misterica, decise "ora di ricorrere alle più sottili, ma efficaci, arti magiche. Inviò un suo messo nello Svartalfheim, il regno degli Elfi scuri, gli gnomi abitatori delle viscere della terra. Qui uno gnomo esperto di sortilegi confezionò Gleipnir, un laccio apparentemente fragilissimo, soffice e liscio come seta frusciante. Gìeipnir, così raccontano gli antichi, era fatto di sei cose: il rumore del passo di un gatto, i peli della barba di una donna, le radici di una montagna, i tendini di un orso, il respiro di un pesce e, per finire, lo sputo di un uccello. Erano tutti ingredienti impossibili a trovarsi, ma carichi di potenza magica, capaci di stregare chiunque, anche l'essere più forte, poiché essi agivano sulle insondabili profondità dell'animo. A quel tempo, la belva si aggirava sull'isola Lyngi, proprio al centro del lago Amsvatnir, regnando incontrastata nella ricca brughiera. Gli dèi, ben conoscendo la segreta malìa celata in Gleipnir, si avvicinarono ancora una volta al lupo, riproponendogli la sfida. Fenrir, che intanto era cresciuto e divenuto più scaltro ed astuto, degno figlio di Loki, osservando la fragilità apparente di Gleipnir subdorò il tranello. Il lupo infatti pensò che se il laccio era veramente così fragile come sembrava allora non sarebbe stato certo un vanto per lui averlo spezzato; d'altro canto se si trattava di una magia non avrebbe avuto scampo. In entrambi i casi non bisognava accettare la sfida. Per non essere accusato di vigliaccheria, il figlio di Loki escogitò un piano per far uscire allo scoperto gli dèi: disse che avrebbe accettato la sfida solo se uno degli Asi, a mo' di pegno, avesse messo una mano tra le sue fauci mentre veniva incatenato. Gli dèi si guardarono in viso e, sentendosi ancora una volta beffati, pensarono che la bestia infame era diventata maledettamente furba. Ma Tyr, del quale era già noto il coraggio, si fece avanti e senza indugio pose la sua mano destra in bocca al lupo: garantiva con quel gesto la buonafede divina. E questa volta a nulla servì la furia devastante di Fenrir: il laccio fatato gli impediva ogni movimento, facendo fallire miseramente i suoi tentativi di liberarsi. Unica vittima della rabbia di Fenrir fu la mano di Tyr che sparì, troncata di netto, nella possenti mandibole. Vedendo dimenarsi senza posa la bestia, gli dèi proruppero in una fragorosa e liberatoria risata, indice del passato pericolo e della riconquistata tranquillità. Solo Tyr non rideva. Gli dèi completarono la loro opera legando l'animale ad una roccia che, con un martello enorme, conficcarono nelle profondità della terra. Tra le sue mandibole misero, come morso crudele, una spada affilatissima, cosicché, dimenandosi, emetteva continuamente sangue e bava, copiosi e putridi liquidi che alimentano il fiume sotterraneo Von. Immobilizzato alla roccia, Fenrir patirà tale orribile sofferenza fino alla fine dei tempi quando, con uno sforzo immane ed aiutato dalle malefiche potenze di Muspellheim, riuscirà a liberarsi, divorando nella battaglia finale Odino. Allora Tyr, già martoriato da un lupo, sarà vittima di Garmr, l'orrendo cane posto a guardia degli inferi.

 

Loki - Il signore dell'ambiguità

Perennemente in conflitto con qualcuno, sempre intento ad ordire inganni, Loki è l'attaccabrighe per eccellenza. Menzognero, malvagio, abile nel doppio eloquio, più che una figura divina (non si conoscono culti a lui dedicati) egli è la personificazione dell'astuzia fraudolenta, della sottile arte del raggiro. Sebbene a livello mitico venga definito più di una volta la « vergogna degli Asi», la sua scaltrezza ha tratto d'impaccio motto spesso gli dèi. Le sue trovate ed il suo linguaggio ne fanno un personaggio a tratti esilarante, facendogli assumere le caratteristiche del triekster, il «buffone divino» presente in vari ambiti culturali.

Indiscusso campione del travestimento, Loki era di una bellezza eccezionale: i suoi tratti avevano la fredda perfezione delle creazioni degli spiriti maligni, ispirando, nello stesso tempo, ammirazione e paura. Una bellezza medusca: affascinante e ributtante, segno dell'estrema ambiguità che circonda simili creature. Indomito organizzatore di avventurosi viaggi nelle terre dei giganti, Loki era, come del resto molti altri dèi, strettamente imparentato con i colossali abitanti dello Jótunbeim. 1 suoi genitori erano Farbauti, «colpi di pericolo», e Laufey, «isola frondosa»: degna coppia che infonderà nelle sue vene la malvagità tipica dei giganti del gelo. L'infanzia del dio è avvolta nel mistero: conosciamo solo i nomi di due suoi fratelli, Bylistr e Helblindi. Ma, per quanto riguarda le parentele, Loki poteva vantare ben più altolocati legami: in tempi remoti aveva stretto con Odino uno strano patto di alleanza, basato sul sacro vincolo della fratellanza di sangue. Un triste destino attendeva però i suoi congiunti, condannati a patire umiliazioni e crudeli sofferenze, espiando in prima persona le pesanti colpe di Loki. La moglie, Sigyn, sarà costretta a vegliare sul corpo martoriato del marito, raccogliendo in una ciotola il devastante liquido che delle serpi fanno cadere sul volto di Loki punito dagli dèi per l'uccisione di Balder. E, con una efferatezza superiore persino alla malvagità di Loki, gli Asi trasformeranno suo figlio Vali in un lupo famelico che, in quelle vesti bestiali, sbranerà il fratello Nari o Narfi: le viscere di quest'ultimo saranno utilizzate per fabbricare la corda che lega il dio al suo luogo di supplizio. Essere dalla sessualità dagli incerti confini, Loki non di rado approfittava del suo polimorfismo per unirsi a focòsi stalloni. Una volta, ad esempio, trasformatosi per l'occasione in un'avvenente giumenta, «partorì», dopo una peccaminosa relazione, Sieipnir, il destriero ottipede, orgogliosamente cavalcato da Odino. Ma altre e ben più mostruose furono le creature partorite dalla doppiezza e dall'ingordigia sessuale di Loki. Esse erano incarnazioni, strumenti viventi della malvagità e degli oscuri disegni di distruzione legati al nome di dio. Gli antichi, che ricordavano con orrore quei momenti, narravano della «apportatrice di male», l'orchessa Angrbodha, una gigantessa dedita al meretricio, condannata per la sua immonda perversione ad essere lambita fino alla consunzione finale dalle fiamme purificatrici dei rogo. L'intera cerimonia ebbe luogo nella piazza principale di Asgardh, al cospetto di tutte le divinità che con la loro presenza sanzionarono la sacralità di quella esecuzione. E quando le fiamme si attenuarono, lasciando lentamente il posto alla brace, Loki, tra la costernazione del sacro concilio, si avvicinò ai resti carbonizzati e spinto dall'eccitazione morbosa che aveva provato guardando quello spettacolo di morte, raccolse con le mani avide il cuore ancora palpitante della prostituta e lo ingoiò. Il caldo boccone sanguinante penetrando nel corpo di Loki produsse uno strano effetto fecondante, favorito forse dall'appetito sessuale senza limiti dei dio, cosicché, dopo poco tempo, il ventre di Loki diede alla luce tre mostri: un enorme serpente, un lupo ed una fanciulla mesta e priva di qualsiasi grazia. Ben presto furono note le caratteristiche e le deleterie funzioni dei figli di Loki. I mostri, fratelli di sangue ed alleati nell'arrecare sventure, si aggiravano per le strade della cittadella divina. Odino, conscio della loro pericolosità, diede ordine di esiliarli nei j'luoghi più remoti. Il serpe fu precipitato nelle profondità oceaniche: da allora in poi, crescendo a dismisura, le sue spire cingono il globo terrestre in una morsa ferrea. Non a caso il rettile è chiamato «Serpe del mondo». Esso era il nemico per eccellenza di Thor che, in numerose occasioni, tentò di stanarlo dal suo rifugio acqueo e di eliminarlo. Gli dèi ebbero grosse difficoltà ad allontanare il lupo che, però, era il mastodontico Fenrir. La sua cattura costò la mano destra dell'intrepido Tyr. La fanciulla, della quale si conosce anche il nome, Hel, venne esiliata in fondo al Nifìheim: gli dèi ne fecero la signora degli inferi, l'orripilante regina con un macrabo corteo di servitori, che dispensava pene e tormenti ad ingloriosi trapassati (vigliacchi, adulteri, assassini e spergiuri). Alla fine dei tempi, quando scoccherà l'ora della battaglia decisiva tra il male ed il bene, rappresentati dagli dèi e dagli spiriti maligni, Loki sarà uno dei capi delle schiere del male, dimostrando fino in fondo la sua appartenenza alle potenze malefiche.

 

Njördhr - Il signore delle navi

Identificato da molti studiosi con la «Madre Terra Nerthus» di cui parla Tacito, Njbrdhr è, nella posteriore elaborazione nordica, il nume tutelare del mare e del vento, signore delle perturbazioni, dispensatore delle fortune o degli affanni di marinai e pescatori. Il particolare significato simbolico delle navi, che spesso nella mitologia nordica appaiono come mezzi di trasporto per l'estremo viaggio nell'oltretomba, può essere considerato un ulteriore rij7esso della particolare ambivalenza morte-vita associata alle divinità nordiche della fertilità, i Vani, di cui Njórdhr è il massimo esponente.

Reggendo con mano salda il timone, il marinaio scrutava l'orizzonte aspettando un segno, una benevola folata di vento che interrompesse quella bonaccia crudele. 1 suoi pensieri erano tutti rivolti a Njdrdhr, il dio che poteva comprendere le sue ansie, perché anch'egli era un pescatore. Anzi: viveva a Noatun, «il recinto delle navi», una espressione che gli antichi usavano per indicare l'immensa distesa oceanica o i porti. Costantemente immerso nelle acque marine, il dio aveva la carnagione interamente coperta di salsedine, tanto da sembrare bianco come la farina: solo il volto era scuro, abbronzato e soleato da profonde rughe come quelle che segnano i visi dei vecchi marinai. Njórdhr apparteneva alla grande famiglia degli dèi Vani, i numi tutelari della fecondità e della fertilità che vivevano a Vanaheim. Tuttavia, agli inizi dei tempi, quando gli Asi conclusero il trattato di pace con i Vani, il signore delle navi era andato a vivere ad Asgardh. Rispettando le consuetudini dei Vani, Njórdhr aveva avuto
rapporti incestuosi con una sua sorella e dalla loro unione erano nati Freyr e Freya, bellissime divinità preposte all'incremento delle ricchezze umane. Per compiacere gli dèi, Njórdhr aveva poi sposato Skadhi, la gigantessa figlia di Thiazi. Ma il loro matrimonio non fu dei più felici: essi avevano caratteri e gusti completamente opposti. Skadhi, ad esempio, era una creatura della brina, abituata a sentire intorno a sé il gelido abbraccio delle montagne innevate, a sentire i cupi richiami dei lupi affamati, a cacciare con il suo arco delle splendide prede, a scivolare veloce come il vento con gli sci sulle pendici impervie di altissimi monti. La «signora delle nevi», questo il suo appellativo, avrebbe voluto trascorrere ogni attimo della sua esistenza a Thrymbeim, la «dimora del frastuono», nei territori dove aveva regnato suo padre. Njdrdhr, invece, abituato "o stridio dei gabbiani, al dolce ed immutabile suono della risacca, all'infrangersi delle onde sulla riva, all'odore intenso e penetrante della salsedine, non poteva certo sopportare la tetra atmosfera dei rigidi inverni in montagna. Solo per non recidere il sacro legame sancito dal matrimonio i due sposi erano pervenuti ad un compromesso: per nove giorni avrebbero soggiornato a Thrymheim, mentre per altri nove la loro residenza sarebbe stata Noatun. Ma non di rado i vecchi marinai, seduti a ranimendare le reti sulla spiaggia, sentivano il lamento straziante di Njórdhr che, costretto al forzato esilio a Thrymheim, esprimeva il suo invincibile fastidio per monti, neve, sci ed ogni oggetto associato al paese natale della consorte. Analogamente i cacciatori, durante le loro battute di caccia in alta montagna, dicevano di aver sentito la «dea degli sci» lamentarsi delle notti insonni passate a Noatun, durante le quali, preda di incubi, smaniava di ritornare tra i suoi monti a calpestare la neve fresca e soffice delle piste d'altura. Forse proprio a causa di questa unione itinerante e dei continui spostamenti che comportava, Njórdhr era cosi capriccioso ed imprevedibile nel concedere i suoi favori: con un colpo di vento poteva mutare di colpo le sorti di una battuta di pesca fenomenale. Secondo una estrema ambiguità ben nota agli antichi, il dio apportatore di prosperità e di ricchezza poteva, nello stesso tempo, distruggere le navi facendo morire interi equipaggi. Del resto, dicevano, non era il «signore delle navi»? Di quelle stesse navi sulle quali, in tempi remoti, i re ed i nobili facevano innalzare le loro pire funebri, consegnando i loro corpi alle fiamme prima del lungo viaggio nelle regioni oscure e misteriose dell'aldiià. E tale ultimo tragitto era affidato proprio a Njdrdhr, il quale tutelava l'imbarcazione-bara. Insomma, questi pensieri di morte e di vita, di speranza e di angoscia albergavano nei cuori di ogni pescatore quando, sotto il cielo stellato, pensava ai rischi connessi ad ogni singola alzata di reti: in ogni caso bisognava ringraziare Njórdhr, il signore delle navi.

 

Freyr - Il signore dell'abbondanza

Protettore e suscitatore della forza fecondante, esplicitata dalla carica sessuale maschile, Freyr è stato, per questa sua particolare valenza simbolica, associato ad analoghe figure presenti nella tradizione euromediterranea, come ad esempio il Priàpos greco. Tale parallelo trova un ulteriore fondamento nella comune etimologia dei due nomen divini, risalenti entrambi alla radice indoeuropea *prij, "ciò che sta davanti o che sporge", che è alla base, tra l'altro, anche dell'italiano «prepuzio», descrivendo così un'area semantica collegata al sesso ed alla fecondità.

Le fanciulle desiderose di por fine al loro beato ed incontaminato, ma pur sempre infruttuoso, stato virginale invocavano il "benefattore delle donne", il bellissimo Freyr, l'ispiratore di tante unioni felici. Ancora libere dalle posteriori incrostazioni di una morale intenta solo a reprimere le istintualità primarie, le donne giovani accorrevano a frotte nei templi consacrati al "dio della pienezza", uno dei tanti appellativi di Freyr. Qui, ai piedi di statue che raffiguravano il dio con un fallo eretto di dimensioni colossali, assistevano a frenetiche danze che mimavano l'eterno mistero della natura rigogliosa e, trascinate dal ritmo ossessivo di tintinnanti campanelle, cantavano inni gioiosi, abbandonandosi ad una esaltante promiscuità. Le speranze per un futuro ricco di prosperità venivano poi rinnovate con sacrifici cruenti, durante i quali il sangue di molti animali sgorgava in abbondanza sugli altari. Pronunziando segrete formule propiziatorie, i sacerdoti dedicavano al dio le carni di un pingue maiale, ben conoscendo il favore accordato sulle mense divine alle carni suine. Si narra inoltre di cavalli lasciati liberi dal peso di qualsiasi cavalcatura, felici di poter scorazzare nei prati vicini ai templi di Freyr. Un triste destino però li attendeva: a metà inverno, nella grande festa di Frdblod, «sacrificio di Freyr», essi, insieme ad altri animali, erano le vittime sacrificali principali del dio. Ma, secondo altri, di crimini ben più orrendi si macchiavano le mani dei sacerdoti che, spinti da una devozione sconfinata, recidevano con i loro coltelli giovani vite umane per incrementare con il loro sangue la fertilità della terra. Freyr, nato dall'incestuosa unione di Njdrdhr con una sua sorella, era il ritratto vivente della perfezione estetica, insieme armonioso di raffinati tratti somatici. E non a caso si diceva che sul suo volto trovassero ospitalità i raggi del sole, dell'astro che garantisce il rigoglio delle spighe dorate. Infatti Freyr, come suo padre, era un dio dispensatore di fertilità e regolava l'alternarsi delle stagioni. La sua presenza dissolveva la brina che distruggeva le umane fatiche, ma egli era anche il signore delle piogge: indispensabile elemento dotato, come il seme, di uno straordinario potere fecondante, che trasforma la terra aperta dall'aratro in una materna dispensatrice di ricchezze. Gli antichi però sapevano che il seminare, il raccogliere, il mietere e tutte le altre fasi della coltivazione dipendono in misura grandissima dalla pace. Senza il duraturo tacere delle armi, senza la tranquillità e la sicurezza dei confini, a nulla vale il quotidiano affanno posto nella cura della terra. Fondendo in sé tutte queste supreme istanze, Freyr era anche il nume tutelare della pace, posto a difesa dei campi, sanzionando con la sua presenza la legittimità dei possedimenti; sue immagini con l'imperituro fallo eretto, finemente intagliate nel legno di alberi secolari, venivano sepolte nei campi arati. 1 simulacri lignei avrebbero tenuto lontano i nefandi influssi delle forze maligne, esorcizzando le invidie e le minacce dei vicini, esiliando i clamori delle battaglie in sperdute regioni. Per i suoi spostamenti, Freyr si serviva di un magnifico cocchio trainato da Gullinbursti, il porco selvatico dalle setole d'oro fino, inestimabile esemplare forgiato da espertissimi artigiani. A volte, nelle notti limpide, quando il "signore dell'abbondanza" cavalcava il suo aureo animale, agli increduli contadini sembrava che la volta celeste emanasse una più intensa e profonda luce, un raggio benefico che penetrava nelle viscere della terra. E cosi, associando l'animale, nel suo aspetto domestico o selvatico, alle virtù divine, il porco ed il cinghiale simbolizzavano le potenze etonie della fertilità e della fecondità, numi da ossequiare per non incorrere nella loro furia distruttrice. Figlio del "signore delle navi", Freyr non poteva non possedere un suo vascello, un'eccezionale imbarcazione dotata di strabilianti poteri. La nave, la portentosa Skidhbladhnir, non conosceva i capricci dei vento, le forzate soste dovute alla noiosa bonaccia: in qualsiasi momento ed in ogni tratto d'oceano le sue vele erano gonfiate da poderose folate che le imprimevano una velocità insuperabile, tanto che sembrava volare sulle onde. E, ulteriore meraviglia, lo scafo divino poteva diventare, pronunziando apposite formule, così minuscolo da essere tenuto in una tasca, pronto ad assumere le sue dimensioni normali nel momento del bisogno. Patrono degli sposi e dei fidanzata e, al di là dei legami ufficiali della passione amorosa, Freyr (da alcuni chiamato Fricco "amante") vive una burrascosa love story con la gigantessa Gerdh, figlia di Gymir. Solo dopo numerosi tentativi il dio riuscirà a coronare il suo sogno d'amore. Ma l'esaudimento del suo desiderio gli costerà la vita: nel duello con Sutr, il nero signore degli spiriti maligni, Freyr rimpiangerà la sua spada donata al servo Skirnir per i servigi resigli nel conquistare il cuore della fanciulla. Impotente, quasi che l'arma persa simboleggiasse la perduta libertà sessuale, senza nemmeno una spada, Freyr perirà miseramente, dilaniato dai colpi del suo nemico, avendo negli occhi l'immagine della donna amata.

 

Freya - la Dea dell'amore

Signora dei Vani, Freya simboleggia diversi aspetti del femminile, includendo, ad esempio, la sfera dei poteri magici e della sessualità sfrenata. Tuttavia particolari vicende mitiche la presentano come una madre ed una sposa teneramente legata ai suoi doveri muliebri, tanto che alcuni studiosi, anche sulla base di altri particolari, vedono in lei un altro nomen della sposa di Odino.

Nata dall'incestuosa unione di Njdrdhr con la sorella, Freya era innanzitutto la Vanadis, la «dea dei Vani» per eccellenza, l'unica presenza femminile della famiglia andata a vivere, agli inizi dei tempi, tra gli Asi. Affascinante visione di grazia ed avvenenza, la signora dei Vani nascondeva sotto i suoi tratti perfetti una innata malizia. E, forse esagerando, si raccontavano sapide storielle sulle sue avventure galanti, disinibite escursioni nel regno della voluttà. Gli antichi, a tal proposito, amavano ripetere, per sigillare in un distico la lascivia e la gioiosa intemperanza della dea, le parole rivoltele da Hundìa, una megera vissuta, non si sa come, tra gli dèi: «Tu corri nelle notti... come la capra coi capri vagabondi ... ». Anche Loki, dando libero sfogo al suo sarcasmo, l'aveva duramente accusata di essere una ninfomane, pronta a soddisfare le voglie del basso ventre con chiunque, fosse un Aso o un Elfo. Del resto, sebbene fosse del tutto lecito tra i Vani, la si accusava di essersi unita in un coito incestuoso con il fratello Freyr. L'estrema dissolutezza di Freya, la sua irrefrenabile energia sessuale, erano cantati dai poeti riella Mangsongr, la poesia amorosa che era severamente proibita, ma che, dando voce alle istintualità elementari, fioriva nel segreto di alcove, agendo come un afrodisiaco in versi. E proprio in una di tali poesie si narrava come Freya avesse ottenuto Hildsvini, «cinghiale da battaglia», magnifico esemplare dalle setole auree, rilucenti come quelle del cinghiale di Freyr. Ebbene, si diceva che la dea aveva donato le sue grazie femminili ai due nani Dain e Nabbi, trascorrendo con loro una infuocata notte di passione: "'alba, come segno d'affettuosa dedizione, ebbe il prezioso animale. Un'altra volta poi, per esplorare regioni del piacere sconosciute, aveva trasformato, con incantesimi a lei sola noti, un suo amante umano in un feroce ma ben dotato cinghiale: quel coito all'insegna della ferinità le aveva procurato sensazioni e ferite indimenticabili! Il collo di Freya era ornato da Brisingamen, la «collana dei Brisinghi», gioiello noto per la sua incomparabile bellezza in tutta Asgardh. Anche sulla provenienza di tale monile circolavano storie maliziose, dove si insinuava che la dea avesse utilizzato la sua ars amatoria per sedurre un popolo intero di nani (i Brisinghi, per l'appunto), per poter avere l'inestimabile collana. Quando si recava al sacro concilio nella piazza principale di Asgardh, la dea montava su un cocchio
scintillante, avvolta in radiose vesti. La sua graziosa vettura era trainata da una coppia di gatti, animali di cui sono note la focosità e l'intolleranza verso qualsiasi legame. La coppia di felini simboleggiava l'irrequietezza amorosa di Freya, il suo essere fedele solo ed unicamente all'imponderabile flusso delle passioni e dei desideri. Eppure, quasi a voler smentire il ritratto sin qui tracciato, erano note le disavventure di Freya nella terra dei giganti. Qui, sebbene avesse potuto godere della vigorosa prestanza sessuale dei colossi di Jdtunheim, aveva più di una volta rifiutato sdegnosamente le loro offerte di matrimonio. E proprio per salvaguardare il suo onore Thor dovette intervenire rumorosamente, ma con efficacia, fracassando crani e dissipando desideri malriposti. Inoltre si conoscevano le «pene d'arnor perduto» patite da Freya per un certo Odhr, unico a quanto sembra suo sposo legittimo. li misterioso Odhr abbandonava spesso l'affascinante consorte per intraprendere lunghi viaggi nelle più desolate contrade, impegnato in non si sa quali avventure. E la povera Freya, freniente d'amore, lo inseguiva invano, piangendo calde lacrime che, subito dopo, si trasformavano in gocce d'oro fuso: per questa ragione, nei versi criptìci degli antichi poemi nordici, si trova l'espressione «lacrime di Freya» per indicare l'oro. L'incessante vagabondare della dea produsse, poi, un moltiplicarsi dei suoi appellativi, assumendo, di volta in volta, nomi e connotazioni di divinità locali come, ad esempio, Mardoll e Gefn, il cui significato è spesso indecifrabile. Freya, durante il matrimonio con l'eterno viandante, aveva messo al mondo due leggiadre fanciulle, Hnoss e Gersemi. I loro nomi, come avveniva in quei tempi, simboleggiavano le loro virtù: essi significano «gioiello» e «tesoro», ma la loro bellezza sfuggiva ad ogni descrizione o appellativo. Per ritornare nel campo delle supposizioni e dei pettegolezzi, si diceva che dietro ai panni dell'enigmatico Odhr si celasse il padre degli dèi, Odino. Anche la signora dei Vani possedeva uno straordinario manto di penne di falco, magico indumento che le permetteva di librarsi in volo proprio come la sposa di Odino, fornendo così l'occasione per ulteriori illazioni. Ma le affinità con Frigg non finiscono qui. Auree collanine, modellini della sua celebre Brisingamen, venivano messi al collo delle partorienti per allontanare gli influssi malefici. Freya, quindi, usurpava i protettorati della «signora degli ASI», quasi a voler prendere il suo posto anche nella devozione popolare. Inoltre, inserendosi di prepotenza in un universo simbolico tipicamente femminile, anch'ella era preposta alla salvaguardia della fecondità e della fertilità, divenendo la dispensatrice di nuove vite e di ricchi raccolti. A tal proposito, due appellativi di Freya, Horn e Syr, sembrano essere stati coniati apposta: il primo, che significa «concime liquido», intende rimarcare la benefica azione esercitata dalla dea sulle colture, rendendole fertili proprio come fa il concime; il secondo, «scrofa», allude all'eccezionale prolificità dei suini, animali eletti a simbolo della prosperità. Ma ben altri frutti aveva portato Freya tra gli uomini e gli dèi: di sua competenza, infatti, era la magia seidhr. Sommo depositario di questa arte era Odino, conoscitore degli intimi segreti delle rune e dei procedimenti magici loro connessi. E, forse proprio durante una loro segreta tresca amorosa, Odino le aveva insegnato le arcane tecniche della magia seidhr. Divinazioni ottenute in uno stato di trance violenta, durante il quale si avevano limpide visioni di avvenimenti passati e futuri; possibifità di nuocere a distanza, imbrigliando nei meandri di incantesimi verbali le vittime predestinate, inibendo loro qualsiasi movimento: questi, in sintesi, i poteri conferiti dalla magia seidhr. Quasi a voler rinchiudere in un unico tragico ciclo la vita e la morte, Freya, signora della foga amorosa, indice di una vitalità sconfinata, svolgeva anche il ben più tristo compito di madrina dei morti in guerra. Anche in questa tetra circostanza la troviamo al fianco di Odino, insieme al quale divide a metà i cadaveri dei guerrieri: cavalcando al fianco dei padre degli dèi, ella sceglieva i suoi eroi, destinati ad essere accolti a Folkvang, «carnpo dell'esercito». Qui, in compagnia della dea, sedevano sui numerosi scanni dell'ampio salone Sessrumnir "ricco di seggi" per l'appunto, contemplando, ormai inutilmente, i meravigliosi tratti e le morbide fattezze della bellissima Freya.

 

Heimdallr - Il guardiano di Asgard

Figura divina di ardua classificazione, fonte di numerose e contrastanti interpretazioni, Heimdalir occupa un posto di rilievo nel pantheon nordico, svolgendo, nei miti, il ruolo di guardiano di Bifrost, la «tremula via» che conduce alla cittadella divina. Le molteplici, ma confuse, allusioni disseminate in testi arcaicifanno pensare, tuttavia, ad un ben più ampio spettro di domini simbolici a lui collegati, di cui, però, mancano i necessari referenti mitico-rituali per una loro precisa identificazione.

Ai limiti estremi del cielo, laddove l'occhio umano non riesce più a distinguere i confini delle cose, irretito dai bagliori di una luce bianchissima, si stagliava Himinbjorg, «monte del cielo», la dimora di Heimdafir, il «dio bianco», come lo chiamarono i poeti nordici. Immerso nella purezza di quell'atmosfera incontaminata, lontano dai clamori e dalle beghe umane, il dio sedeva beato, bevendo enormi coppe di idromele e carezzando Gulltoppr, il suo fantastico destriero dalla criniera fatta di sfavillanti boccoli d'oro fino. L'aureo metallo era profuso in abbondanza anche nella bocca del dio, donandogli un sorriso abbagliante e l'appellativo di Gullintanni, «denti d'oro», con cui era conosciuto in tutta Asgardh. Dal suo palazzo celeste HeimdaUr sorvegliava il «sentiero tremolante», il ponte Bifrost, l'arco multicolore teso tra il cielo e la terra che i comuni mortali scorgono solo dopo le tempeste e che era l'unica via d'accesso ai territori divini. Sentinella instancabile, Heimdalir vigila con solerzia impareggiabile, giorno e notte, dormendo pochissimo, simile ad un uccello pronto a destarsi al minimo rumore sospetto. E, come ausilio indispensabile per l'importante compito affidatogli, il «dio bianco» aveva un udito sensibilissimo: poteva sentire l'erba crescere nei prati o la lana che ingrossava quotidianamente il vello delle pecore. A tal proposito, si narrava che egli avesse ricevuto questo portentoso udito rinunciando ad una delle sue orecchie, recidendola e seppellendola sotto il sacro frassino che attraversa l'universo. Simile ad Odino che, per avere una vista più profonda, che gli consentisse cioè di vedere l'essenza delle cose, divenne orbo, Heimdallr aveva perciò un solo orecchio, indice di una rinuncia alla normalità, indispensabile sacrificio per acquisire un senso soprannaturale. Nelle mani di Heimdaìlr si trovava Giallarhorn, «corno risuonante», strumento di straordinaria potenza, il cui suono, grazie anche ai capaci polmoni del dio, raggiungeva i più sperduti angoli del mondo, annunziando la profanazione di Bifróst e chiamando a raccolta gli dèi. Ma, unendo l'utile al dilettevole, il corno era anche un magnifico calice da cui il dio sorseggiava la fresca mistura divina, il nobile idromele. Misteriose storie aleggiavano intorno a Heimdalìr, frammenti cifrati di labirinti che gli antichi nordici sapevano percorrere, ma di cui si sono perse le chiavi. Alcuni raccontavano, ad esempio, che il «custode di Asgardh» venne ucciso da una testa umana usata come macabro proiettile. E, unici a sapere sondare gli enigmi divini, i poeti parlavano di «spada di Heimdallr» quando volevano indicare, nel loro linguaggio ispirato, il cranio umano. Forse intendevano rammentare tristi episodi della ferocia delle primeorde guerriere nordiche, quando, a quanto si dice, il cervello dei nemici veniva estratto dai loro crani e impastato con della calce: se ne facevano ributtanti proiettili dotati di un potere magico sconfinato, capace di annientare qualsiasi eroico combattente.Dal resto, sempre nelle pieghe di versi criptici, si diceva che Heimdallr era un valente guerriero, intrepido sfidante dell'astuto signore degli inganni, il malvagio Loki. I due, in un tempo remotissimo, si affrontarono in uno strano duello, immersi nelle acque limacciose di un fiume, assumendo per l'occasione l'aspetto di foche. L'oggetto del loro contendere sembra essere stata la collana di Freya, da sempre fonte di invidie e di conflitti. Ma il mistero più insondabile, fonte di interminabili dispute, è celato nelle parole che il dio stesso pronunziò a proposito della sua nascita. In uno dei suoi canti magici, messaggi cifrati consegnati all'umanità incredula, Heimdallr diceva: «lo sono nato da nove madri Io sono nato da nove sorelle». Tramandati di generazione in generazione, si conoscono anche i nomi delle madri-sorelle, «tutte figlie di giganti», come è detto nello stesso carme. Tentando di svelare i segreti celati nell'enigmatico distico, alcuni coìnmentatori pensano che Heimdallr, oltre a salvaguardare Bifrost, fosse il nume tutelare del frassino dei mondo, il pilastro vegetale che attraversava i nove mondi dell'universo nordico. E, richiamandosi ad antiche tradizioni, pensano che le madri-sorelle simboleggino i nove settori in cui era frammentato il cosmo: il «dio bianco», quindi, sarebbe stato il custode dell'ordine cosmico e divino allo stesso tempo, vigilando sulla solidità dei suoi assi principali, tenendo lontani i foschi rappresentanti delle forze del male. Forse proprio per prepararlo a questo duplice compito le sue madri lo sottoposero, appena nato, a particolari cerimonie, dei rituali iniziatici carichi di simbolisini intricati ed oscuri, fornendogli così una corazza fatta di incantesimi, fragile a prima vista, ma efficacissima contro qualsiasi malia diretta contro di lui. li pargolo divino fu cosparso di terra, di gelide gocce provenienti dai mari ghiacciati dell'estremo nord e, per infondergli coraggio e forza, di sangue di porco selvatico coiisacrato: fu questo, in sintesi, il singolare «battesimo» di HeimdOr. Le doti del dio si manifestarono in tutta la loro grandezza alla fine dei teinpi, quando il suo corno risuonò, grave e penetrante, in tutto il cosmo, chiamando allo scontro finale le forze del bene contro quelle del male. In quella occasione egli dovette assistere al crollo di Bifröst, squarciato dalle orde furiose dei distruttori dell'universo, ma, impavidamente, continuò a soffiare nel corno, fornendo la colonna sonora di quell'ultimo spettacolo di morte. Rinnovando la loro antica sfida acquatica, si batté in duello con Loki e, senza mai abbandonare il suo Giallarhorn, pose fine alla vita del suo nemico. Ma subito dopo, ferito a morte, stramazzò al suolo. Heimdallr ebbe ancora il fiato sufficiente per suscitare altre brevi ma possenti note e poi mori, testimone e protagonista dell'inizio della consumazione finale dell'universo.

 

Dèi minori

Talvolta semplici nomen, presenze divine scarsamente documentate, inserite in contesti mitico-rituali di cui ci sono ignote le caratteristiche, gli dèi cosiddetti «minori» emergono numerosi nel pantheon nordico. Oggetto di copiosi studi, frutto delle dotte speculazioni di archeologi, storici delle religioni e specialisti delle culture nordiche, essi hanno conservato, a tutt'oggi, il mistero che li circondava nei miti in cui appaiono.

Figure evanescenti che popolavano i racconti tradizionali, l'impalcatura orale della religione dei nordici, gli «dèi senza storie», le divinità delle quali si mormoravano solo il nome e qualche attributo, avevano certamente una loro precisa funzione nell'architettura polivalente di Asgardh. Di alcuni di loro, a dire il vero, si conosceva il motivo della scarsa popolarità, dell'oscuro silenzio in cui erano immersi. Come esempio tipico di tale congiura del silenzio, gli antichi nordici citavano Hödhr, il figlio cieco di Odino, inconsapevole fratricida, assassino del luminoso Balder. Infatti erano stati gli dèi stessi a decretare che non si parlasse di lui, tanto grave era stata la sua colpa; e naturalmente gli uomini devoti si astenevano anche dal nominarlo. Ben più arcani misteri si celavano però negli attributi di divinità come Hoenir, ad esempio. 1 Fuggevole comparsa nel racconto della creazione dei primi esseri umani, allora compagno o fratello di Odino, egli infuse l'anima in tronchi d'albero, trasformandoli in creature viventi. Eppure, oltre a questa sua impresa primordiale, non si conoscono altre sue avventure: solo degli strani nomi che, basandosi su una tradizione millenaria, ma ormai svanita nel nulla, gli venivano attribuiti. Così i poeti lo chiamarono Langifort, «gambalunga» o, davvero incomprensibilmente, Aurukonnungr, «re del fango»: per molto tempo le menti migliori tentarono affannosamente di indicare un possibile significato, ma i disegni divini rimasero impenetrabili. Altrettanto enigmatici sono i contorni di una figura come Lodhurr, anch'egii protagonista del mito della nascita dei primi uomini. Tutti conoscevano il ruolo svolto da Lodhurr in quell'occasione: aveva fornito il calore, il benefico tepore che sostenta il corpo umano, ai freddi tronchi trovati sulla spiaggia. E proprio ricordando questo episodio si riteneva che fosse il patrono del fuoco nella sua dimensione benefica e non distruttrice: forse la radice di tale accostamento risiedeva nel suo nome (secondo un probabile accostamento con lodern, «ardere»). Di altri dèi si conoscevano maggiori particolari, tuttavia essi sfuggivano ad ogni precisa catalogazione, quasi a voler lasciare un'ampia zona d'ombra tra sé e gli uomini. Ad esempio, tutti conoscevano le qualità di Bragi, il dio dalla barba fluente, abile conversatone ed allietatore con i suoi racconti delle serate divine. Quasi a voler usurpare il «dono di Odino», era spesso invocato dai poeti che vedevano in lui il loro patrono. Non per niente i cantori di storie meravigliose, piene di fantastici avvenimenti svoltisi nella notte dei tempi, erano chiamati «uomini di Bragi». Anche la sposa del «dio barbuto», altro appellativo di Bragi, era ben conosciuta: si trattava della solerte custode dei pomi dell'eterna giovinezza, l'ingenua vittima dell'astuzia di Loki, la bella ldhunn. Ma, nella pur movimentata vita che si conduceva ad Asgardh, Bragi non visse avventure in prima persona, ma restò a far da comparsa in tante storie di altre divinità. Invocato nei duelli, valentissirno arciere e sciatore, figliastro di Thor e figlio di Sif, anche Ullr apparteneva alla schiera degli dèi «famosi ma sconosciuti». Essi sono i signori indiscussi delle loro arti, divinità notissime per i loro patronati, protagonisti di storie delle quali si sono perse le trame. Il destino di Ullr è simile a quello di Forseti, figlio di Balder e di Nanna. Da tutti conosciuto per la sua abilità nel risolvere le controversie, egli era perciò chiamato il «pacificatore». Viveva in una ricca dimora con colonne d'oro fulgido e tetto d'argento lucente, ma, come sembrano provare queste scarne informazioni, non visse l'epica ridondante e fantastica degli abitanti di Asgardh: quasi che la morte prematura dei padre lo avesse esiliato in un'aurea prigione, lontano dagli accadimenti divini. Non mancano, in tale elenco degli oblii, delle presenze macabre: dèi che, malgrado il loro eroico comportamento, non riuscirono ad avere un posto di primo piano nel pantheon nordico. Mimir, dio di quella particolare forma di saggezza imparentata con la memoria, è un tipico esponente di questa classe di dèi sacrificatisi invano. All'epoca della contesa con i Vani, egli fu consegnato insieme a Hoenir ai nemici degli Asi i quali, per stizza e stanchi di dipendere dalle sue sentenze, gli mozzarono il capo. Ed anche se Odino, con erbe e canti magici, riuscì a tenere in vita la testa di Mimir, egli non riuscì mai a farsi una «fama», miti e riti, degna della sua immolazione: rimase una figura di secondo piano. Nonostante che fossero figli di Odino e che, nello scontro decisivo contro i maligni abitanti di Muspellheim, ricoprissero un ruolo di primaria importanza, Vidharr e Ali o Vali (addirittura non si conosce il suo nome preciso!) rimasero prigionieri dell'alone di mistero che li circondava. Vidharr apparirà, quasi come un inviato di una potenza superiore agli dèi stessi, nell'estrema battaglia contro le forze del male ed abbatterà con una sua portentosa scarpa dalle dimensioni gigantesche il lupo Fenrir, la bestia che assassinò il padre. L'altro misterioso figlio di Odino ucciderà, nella stessa occasione, il cieco Hödhr, macchiandosi cosi di fratricidio. Ma oltre a queste imprese, di diverso valore e significato, i due fratelli non compaiono in nessun altro racconto e cosi ripiombano, insieme agli altri «dèi senza storie», nelle nebbie delle supposizioni dei commentatori.

 

Le donne degli dèi

Esiliate nel loro ruolo di spose, le dee nordiche, tranne alcune eccezioni, non vivono mai in prima persona le loro avventure, ma sono destinate a rimanere in secondo piano, lasciando ampio spazio ai maschi, veri protagonisti. Eppure, scandendo i ritmi quotidiani delle varie fasi del ciclo vitale, divinità femminili sono invocate nelle più disparate occasioni, documentando così la loro sfaccettata e numerosa presenza. Purtroppo gli scarsi referenti mitologici non consentono, nella maggior parte dei casi, di delineare un quadro preciso delle loro sfere simboliche. Chi accoglieva Thor quando, stanco ed affamato, ritornava dalle sue scorribande nella terra dei giganti? Chi allietava le serate del bellissimo Freyr? Chi sopportava i quotidiani misfatti di Loki? Queste domande, nate dalla più naturale curiosità, consentivano agli antichi narratori delle mitiche vicende divine di squarciare il velo d'anonimia che ricopriva le compagne degli dèi. Ma, basandosi sulle arcaiche tradizioni tramandate dai loro padri, essi non potevano che fornire scarni dettagli: le dee rimanevano sconosciute. Certo, si sapeva che il «gigante buono», il rosso Thor, aveva come compagna l'affascinante Sif, della quale erano note le bionde chiome. Il biondo dei suoi capelli era l'immagine dello spettacolo abbagliante delle spighe mature, dorate.dal sole, che la dea proteggeva e faceva crescere rigogliose. Più particolari arricchivano le storie su Skadhi, la sposa di Njdrdhr: le stesse circostanze del suo matrimonio con il signore delle navi erano divenute proverbiali. E ricordando l'inganno da lei subito in quell'occasione, si rideva della sua ingenuità che l'aveva portata a confondere Njdrdhr con Balder. Freyr, l'«amante», il dio caro agli innamorati, aveva scelto come sua compagna la bella gigantessa Gerdhr. Ma di lei, oggetto di sicure invidie femminili, non conosciamo che l'insuperabile bellezza, fonte di meraviglia e di estatico rapimento. Anche il malvagio Loki, essere per tanti versi spregevole, poteva contare sull'affettuosa dedizione della moglie Sygin. Sarà lei, infatti, ad evitargli atroci tormenti raccogliendo in un bacile, con pazienza e costanza, le gocce di veleno che gli rigano il volto nell'esilio a cui è stato condannato dagli dèi. Altra abitante di Asgardh che svolgeva un ruolo di grande importanza, ma della quale si ignorano le virtù specifiche, è ldhunn, la custode dei pomi dell'eterna giovinezza. Di lei si sa solo che era moglie del barbuto Bragi, dio dell'eloquenza poetica, e che una volta fu vittima dell'arte truffaldina di Loki: fu catturata dai giganti che le sottrassero le magiche mele che però furono subito recuperate dagli dèi. Il destino più triste è senza dubbio quello toccato a Nanna, sposa infelice di Balder. L'unica sua apparizione sulla scena mitica è legata alla tragica morte del marito: la scomparsa dell'amatissimo consorte la fece piombare in un incolmabile sconforto che le squarciò il cuore. Nanna, allora, decise di condividere con Balder le fiamme dello stesso rogo funebre, accompagnandolo nel regno delle tenebre. Solo nelle invenzioni linguistiche dei poeti, unici conoscitori di arcane storie, è possibile rintracciare una folla di dee, figure evanescenti note soltanto attraverso i loro appellativi. Così, nel paragone poetico «vola come Gna» si cela una divinità enigmatica, perennemente in giro per il mondo, in groppa al suo destriero alato Hofvarpnir, «che muove in fretta gli zoccoli». L'espressione citata si adoperava nei carmi dedicati agli eroi leggendari per indicare una persona particolarmente veloce. E ancora: i saggi venivano detti i «congiunti di Snotra», dal nome di una dea della saggezza, della quale non ci sono pervenute caratteristiche o imprese. Si ricordava, inoltre, Syn, ella veniva invocata anche nei tribunali, dove era la patrona degli accusati, e pronunziare il suo nome significava voler dichiarare la propria innocenza. «Vede con gli occhi di Vor», si esclamava a proposito di una donna particolarmente sapiente: si trattava di una dea sempre avida di nuove conoscenze, desiderosa di accrescere la sua già sconfinata cultura. Di diversa indole era Var, dea che presiedeva ai giuramenti ed ai patti tra uomini e donne, punendo severamente gli spergiuri. Proprio per ricordare tale sua prerogativa, i giuramenti erano detti «preghiere di Var». Intermediaria della volontà della suprema coppia celeste Odino-Frigg, Lofn accordava, comprendendo le ragioni dell'amore, il consenso a quelle unioni pre-matrimoniali che erano state proibite o contrastate: di fronte al «fatto compiuto» ella dava il suo permesso, alimentando così anche un gioco di parole, perché «Lofn» significava proprio «permesso». Per rimanere in argomento, gli amanti si rivolgevano a Sidfn, una misteriosa dea che - adorabile occupazione - distoglieva gli amanti dagli affanni quotidiani e volgeva i loro pensieri unicamente ai teneri scambi d'effusioni. Ben più sinistra era Gefiun, dea che accoglieva le fanciulle morte vergini, destinate ad essere sue ancelle in una eterna e casta solitudine. Di Eir, altra divinità sigillata in scarne allusìoni poetiche, si sa solo che era il migliore dei medici, ma non si conoscono sue miracolose guarigioni o cure. Si raccontava infine, con malcelata malizia, di una dea che beveva ogni mattina in compagnia di Odino, dividendo con lui coppe d'oro finemente cesellate ricolme di sacro idromele. Saga - questo il nome della mattutina compagna del dio supremo - viveva a Sdkkvabekkr e non sembra che avesse altre occupazioni: forse era solo una delle tante amanti del padre degli dèi.

 


 

LEGGENDE

 

 

 

Esequie Divine

Il racconto della morte di Balder, epilogo inevitabile e. in un certo senso, funzionale a tutta la sua vicenda mitica, rappresenta, pur tra le numerose stratificazioni presenti, l'archetipo delle usanze funerarie nordiche. In tal senso, tra le pieghe di un narrato fantastico e metastorico, è rinvenibile una preziosa descrizione di antiche ritualità, che fornisce tra l'altro i referenti mitologici per una possibile interpretazione di certe recenti scoperte archeologiche (si pensi, ad esempio, alla nave usata come carro funebre).

Tristi rivelazioni apportavano, a volte, i sogni: messaggi cifrati di una volontà che sovrastava dèi ed uomini, accomunandoli in un destino oscuro di cui erano gli inconsapevoli protagonisti. Balder, l'amatissimo figlio di Odino, iniziò ad avere degli incubi, angoscianti presagi di morte nei quali si inscenava la tragica fine della sua esistenza. Trepidante e visibilmente scosso, il bellissimo ed innocente «signore tra gli dèi» descrisse le terribili immagini che popolavano le sue notti insonni al sacro concilio divino. Gli Asi, che sapevano come esplorare i misteriosi meandri dei linguaggio onirico, ascoltarono attoniti il suo racconto e, dopo una lunga discussione, deliberarono che tutto il creato dovesse giurare di non nuocere a Balder. L'alta missione di raccogliere i giuramenti fu affidata a Frigg che, con materna apprensione, iniziò subito l'interminabile viaggio intorno all'universo. La consorte di Odino si recò dal ferro e da ogni specie di metallo; dal fuoco e dall'acqua; da ogni tipo di pietra e di minerale: adoperando i prodigiosi poteri che le erano stati conferiti, parlò ad ognuno di essi ed ottenne la sacra promessa che avrebbero risparmiato il figliolo. Senza tralasciare nessuna forma di vita, Frigg avvicinò tutte le specie di belve e di animali domestici e fece sottoscrivere loro un patto di non-aggressione. Anche le malattie ed i veleni furono contattati e, ossequiosi al volere divino, tutti promisero di non diventare mai strumento di morte per Balder. In breve tempo, Frigg neutralizzò ogni possibile mezzo d'offesa: l'invulnerabilità di Balder sembrava assicurata. Solo al vischio, una pianta tenerissima ed inoffensivo che cresceva ad ovest della Valhafla, non fu richiesto il giuramento, perché fu ritenuta troppo giovane. Godendo della ritrovata serenità, gli Asi inventarono allora un gustoso passatempo, esorcizzando cosi le ansie patite: ritto, circondato dagli dèi in circolo, Mder faceva da bersaglio, vittima incolume di frecce, sassi ed ogni tipo di proiettili lanciatogli addosso. Ridendo beato, il dio non riportava alcuna scalfittura o ferita e si prestava volentieri all'innocuo passatempo. Ma, come sempre accadeva in questi casi, il malvagio Loki era roso dall'invidia: non sopportava la costante attenzione riservata au'avvenente figlio di Odino. Principe indiscusso dell'intrigo, Loki iniziò le sue fraudolente manovre travestendosi da vecchia. Protetto da quei panni logori, Loki si avvicinò a Frigg e, perseguendo un suo piano diabolico, le chiese come mai non temesse per il figlio, bersaglio vivente di tanti pericolosi strali in quell'incessante tiro a segno. La dea, ignara, raccontò dei giuramenti e, cadendo nella trappola tesale, raccontò anche del vischio. Saputo ciò che gli stava a cuore, Loki si diresse verso ponente, alla ricerca di un ramo della pianta fatale. Colto il frutto del suo intrigo, Loki fece ritorno ad Asgardh, pronto ad escogitare nuove nefandezze. Difatti un giorno, assistendo all'ennesimo spettacolo degli elogi rivolti a Balder dalla moltitudine divina, egli iniziò ad imbastire il suo tranello. Subdolamente avviò una conversazione con Hddhr, l'unico dio che non partecipava al divino divertimento perché, nonostante fosse anch'egli figlio di Odino, era cieco dalla nascita. Loki riusci con il suo eloquio mielato a carpire la fiducia di Hódhr, fingendo di interessarsi alla sua triste esistenza avvolta nelle tenebre: guidando con sapienza la conversazione, gli propose di partecipare al tiro a segno degli Asi. Ed aggiunse che lui lo avrebbe aiutato, indicandogli la traiettoria. Quasi senza attendere l'assenso del dio cieco, Loki armò un arco con il rametto di vischio e glielo porse: lo strale partì veloce ed il bellissimo Balder, trafitto dal vegetale mortifero, cadde al suolo senza vita. Lo sbigottimento e l'atroce dolore colpirono gli dèi che, affranti, non riuscivano a dare espressione al loro cordoglio: la voce si strozzava in gola, lasciando il posto ad un lamento sconsolato ed incomprensibile. Si racconta che la natura intera partecipò al lutto divino e tutto il creato proruppe in un pianto cosmico. Attimi interminabili trascorsero prima che gli Asi ritornassero in sé intuendo ciò che poteva essere successo: i loro sguardi erano tutti puntati, come spade infuocate, su Loki. Ma nessuno poteva vendicarsi in quel sacro luogo: la piazza di Asgardh era stata da sempre consacrata alla pace e non la si poteva lordare con il sangue del «maledetto Loki». Tentando di superare lo sgomento, Frigg, la madre inconsolabile, allontanò i sentimenti di odio e di rabbia che serpeggiavano tra gli dèi. Proprio lei che più di tutti stava conoscendo i morsi lancinanti della coscienza: i «rimorsi»; riuscì a trovare la forza per invitare chiunque avesse voluto guadagnarsi la sua benevolenza a compiere un viaggio nelle profondità di Hel, nell'estremo tentativo di riportare in vita l'amato figliolo. Tra i presenti, l'unico che ebbe il coraggio di offrirsi per quella triste missione fu Hermddhr, l'«ardito», uno dei figli più intrepidi di Odino. Montato su Sicipnir, il grigio stallone ottipede del padre, il giovane ricevette le ultime raccomandazioni di Frigg: doveva convincere Hel a ridarle il figlio, offrendole qualsiasi riscatto avesse preteso. Intanto gli Asi, adempiendo ai sacri riti, avevano portato il cadavere di Balder in riva al mare. Qui, con i cuori colmi di pietà, avevano traslato la salma su Uringhorni, la maestosa nave, la più grande di tutta Asgardh, di proprietà del dio. Sull'imbarcazione era stata allestita, secondo le antiche usanze, una pira di eccezionali dimensioni, estrema dimora incandescente. Lo straordinario convoglio funebre non riusciva però a prendere il mare ed avviarsi nel suo lungo viaggio nei territori inesplorati dell'aldilà: gli dèi, sebbene tra loro ci fosse anche Thor, non erano capaci di smuovere la nave. Ed allora, dopo un breve consulto, si decise di chiamare Hyrrokkin, una gigantessa famosa per la strabiliante potenza delle sue braccia, capaci, si diceva, di scuotere montagne intere. In groppa ad un enorme lupo che aveva imbrigliato con delle serpi velenose, Hyrrokkin giunse nella cittadella divina e subito offrì i suoi servigi a Odino. Il padre degli dèi le diede come scorta quattro berserkir, i formidabili guerrieri a lui devoti. Hyrrokkin, sicura di sé e delle sue forze, si appoggiò alla prua della nave e, concentrando i suoi sforzi, le diede uno strattone di incredibile violenza. Quella prima spinta fu accompagnata da scintille e boati, maremoti e terremoti provocati dagli spostamenti di terra e d'acqua. Il tremendo frastuono spaventò non poco gli Asi che, eternamente sospettosi, pensarono ad una mossa sacrilega della gigantessa, un tentativo di profanazione del sacro vascello. E poco mancò che Thor le fracassasse il cranio con il suo martello. Ma Hyrrokkin aveva svolto il suo compito con cura e difatti, subito dopo, la nave ruppe gli ormeggi. Nanna, figlia di Nep e consorte del povero Balder, non resistette al dolore e, come spesso avveniva, il suo cuore cessò di battere, esprimendo con la sua morte il desiderio di seguire il marito nell'estremo viaggio. Anche la sposa, allora, fu posta sul rogo e, con il volto ancora più arrossato a causa delle altissime lingue di fuoco, Thor consacrò la pira con Mjólnir, suggellando con quel gesto la devozione degli dèi. Nel fuoco sacro, che avrebbe cremato i corpi di Balder e di Nanna, finì anche un nano, un certo Litr che, incautamente, corse tra i piedi di Thor, provocando la reazione rabbiosa del dio che gli diede un calcio, scaraventandolo tra le fiamme. Alla cerimonia funebre parteciparono genti di tutte le stirpi, che resero omaggio agli Asi. E, avvolti nella solennità dei loro paramenti, intervennero tutti gli dèi.
Davanti a tutti, reprimendo gli scoppi di pianto, Odino, circondato dalle Valchirie e con i suoi due fedeli corvi sulle spalle, avanzava mestamente porgendo il braccio a Frigg. Seguiva Freyr, che dirigeva con perizia il suo carro trainato da Gullinbursti, il cinghiale che emanava una soffusa luce dorata con le sue setole auree; poi veniva il «dio bianco», Heimdailr, in groppa a Gulitoppr, il cavallo dalla soffice criniera tutta di filamenti d'oro. Dietro di loro si sentiva il rumore del cocchio di Freya; dallo splendido abitacolo la dea guidava i felini che lo trainavano. Ma in verità nessuno può descrivere la folla multicolore e variegata che si radunò sulla riva: folle di giganti, schiere di guerrieri, di nani e di creature della notte e dei boschi. Insomma mai si vide tanta gente pronta a salutare la partenza di un «visitatore di Hel», come dicevano gli antichi poeti nordici. Odino, offrendo un ultimo dono al figlio, pose sulla pira funebre il suo anello Draupnir, fonte di enormi masse d'oro, prezioso viatico per quel lunghissimo viaggio. E sempre seguendo tradizioni ataviche, le fiamme, ormai pregne degli umori corporali del dio, ricevettero il cavallo di Balder, un magnifico esemplare bardato con tutti i finimenti, riccamente adorno di broccati e fibbie d'oro. Intanto Herme>dhr, l'intrepido messaggero degli dèi, aveva cavalcato per nove giorni e nove notti, attraversando valli oscure e profonde, immensi territori immersi nelle tenebre, tetri paesaggi di morte. Infine, grazie al suo coraggio, giunse nei pressi del fiume Gyóil, il corso d'acqua che segnava il confine con gli inferi. Qui, spronando Sleipnir, attraversò il ponte d'oro massiccio che lo sovrastava: alla fine del ponte trovò ad aspettarlo Modhgudhr, la vergine guardiana dei confini di Hel. La fanciulla, osservando il sudore che rigava il volto del cavaliere, gli chiese come mai uno che non era pallido come i cadaveri avesse guadato quel fiume. L'inviato divino, incurante delle orride visioni di morte che lo circondavano, le raccontò della sua missione. Allora la solerte contabile di quell'universo di morte, gli confidò che il giorno prima ben cinque schiere di uomini avevano arricchito il regno di Hel. E indicando un sentiero tortuoso che discendeva nelle viscere di quelle terre, aggiunse che il leggiadro figliolo di Odino era con loro. Hermddhr, tentando l'impossibile, si lanciò in un furioso inseguimento, percorrendo strade accidentate ed impervie. Giunse infine davanti ai cancelli di Hel, ultimo avamposto dell'aldilà. Sicuro della sua cavalcatura, il messaggero degli dèi spronò con tutte le sue forze Sleipnir che, quasi come sospinto dal vento, scavalcò il cancello, atterrando incolume nel cortile. Allora scese da cavallo e con passo deciso si avviò verso una sala che aveva intravisto. In un'atrnosfera funebre, Hermddhr vide, seduto su un alto scanno, l'amato fratello, ma, stanco per le fatiche del viaggio e stordito dalle immagini inconsuete di moltitudini di trapassati, Hermódhr si addormentò, rinviando al giorno dopo il compimento della sua missione. L'indomani infatti si recò dalla regina dell'oltretomba e, con toni asciutti e dignitosi, le raccontò dell'immenso dolore che affliggeva gli Asi. Parlandole della tristezza dei giorni di Frigg, ora che aveva perso il bene più prezioso per una madre, le chiese di lasciar ripartire Balder: in cambio gli dèi erano disposti a darle qualsiasi ricchezza. Titubante, pensava ad un modo per tenersi il bellissimo dio e, nello stesso tempo, evitare la collera divina; Hel, contando sui sentimenti malvagi celati anche nel più puro degli animi, disse che Balder avrebbe lasciato il suo regno se tutto l'unìverso, gli esseri animati e quelli inanimati, avessero pianto la morte del dio, dimostrando cosi che era davvero amato da tutti. Hermddhr, compiuta la missione, si congedò da Balder che, adempiendo alle regole dell'ospitalità, gli porse dei doni per Odino, per la madre e per la moglie. Quindi l'inviato divino abbandonò il regno tenebroso dei morti, fornito di un lasciapassare di Hel Giunto in Asgardh, Hermódhr riferi della proposta di Hel. Immediatamente gli dèi mandarono messaggeri per il mondo, invitando i metalli, i vegetali, le pietre, gli animali, gli uomini ed ogni elemento presente nell'universo, a piangere la morte di Balder. Incredibilmente si videro metalli piangere, fondendo la loro durezza senza l'ausilio della fucina e della brace ardente; gli alberi si ricoprirono di sottilissima rugiada; gli occhi di bestie feroci si velarono di calde lacrime: dovunque regnava la mestizia, dappertutto si scorgevano i segni tangibili dell'amore per Balder. Putroppo, in una misera bicocca, i messi divini trovarono una vecchia megera di nome Thókk che si rifiutò di piangere e, dando prova di ulteriore cattiveria, si augurò che Hel tenesse con sé a lungo il figlio di Odino. Il povero Balder fu quindi lasciato al suo destino, ma gli dèi non tardarono molto a capire che dietro i panni della vecchia megera si celava, ancora una volta, il perfido Loki, il «maledetto» attentatore della felicità divina. Stanchi delle sue malefatte, gli Asi decisero di por fine una volta per tutte alla sua inesauribile malvagità, espellendolo dal sacro concilio. Ma Loki, prevedendo l'ira funesta degli dèi, si era rifugiato su una montagna dove, per difendersi dagli attacchi, si era costruito una singolare dimora con ampie aperture nelle quattro direzioni dei punti cardinali, cosicché poteva scorgere l'arrivo di eventuali nemici da qualsiasi parte provenissero. Inoltre, durante il giorno, Loki assumeva le sembianze di un salmone e sguazzava, sicuro del suo travestimento, nelle acque gelide di una cascata lì vicino. Odino, assiso sul suo trono, poteva però indagare con la sua vista mistica ogni oscuro recesso dell'universo e, in pochissimo tempo, scorse il rifugio del vile e lo svelò agli Asi. Gli dèi si mossero prontamente, formando un corteo guidato dal saggio Kvasir, l'unico che poteva opporre le armi dell'intelligenza contro la doppiezza e la scaltrezza di Loki. Ed infatti egli fu il primo a scoprire il travestimento di Loki e consigliò di costruire una rete robusta, una prigione di maglie fittissime ed impenetrabili. Seguendo le direttive di Kvasir, gli dèi si recarono nei pressi della cascata e vi gettarono la rete, ma Loki sfuggì per ben due volte alla trappola tesagli. Infine, abbandonando la rete, Thor inseguì lo strano pesce nel suo elemento naturale e, con slancio fulmineo, riuscì ad afferrarlo per la coda con una presa micidiale. Nel vano tentativo di divincolarsi da quella stretta ermetica, il pesce-Loki subì una metamorfosi: la coda gli si allungò e, come dicevano i nordici, i salmoni, discendenti di quel pesce, hanno conservato la caratteristica forma allungata. Ora il perfido signore degli intrighi giaceva, miserabile relitto, nelle profondità di un'oscura caverna. Gli Asi, architettando una punizione degna delle sue empie azioni, presero tre lastre di pietra, levigate dal millenario lavoro degli agenti atmosferici, e praticarono con perizia un foro in ognuna di esse. Poi, dimentichi di ogni pietà, presero Vali, uno dei figli di Loki, e lo trasformarono in un lupo famelico, una bestia feroce dalle fauci desiderose di sangue. Narfi, l'altro figlio del «maledetto», fu posto davanti al lupo e, spettacolo di orrenda crudeltà, fu ridotto dal fratello un ammasso informe di carne e sangue. Accecati dalla sete di vendetta, gli Asi si gettarono come iene sul cadavere di Narfi e, con truce determinazione, ne asportarono gli intestini, facendone delle corde robuste. Indomiti esecutori di una giustizia dettata dalla furia, gli dèi infilarono le corde ancora sanguinanti nei fori delle pietre e vi legarono Loki. Immobilizzato con la sua stessa carne, Loki doveva patire ulteriori tormenti: Skadhi, perfezionando quel supplizio, catturò un serpe velenoso e lo legò sul capo di quell'infame, in modo che il malefico secreto ofidico stillasse sul suo viso. Allora Sygin, che rimase la sua fedele compagna anche in questa sua definitiva sventura, afferrò un bacile e, con amorosa dedizione, prese a raccogliervi le gocce di veleno. Gli antichi nordici raccontavano che Sygin instancabilmente difendeva il volto del marito dalle sferzanti gocce, ma, ogni tanto, era costretta a vuotare il bacile e così il liquido poteva colpire la sua vittima. Quelle poche gocce erano sufficienti a far spasimare e sussultare il «prigioniero degli dèi» che, anche se immobilizzato, non cessava di arrecare danni all'umanità: dimenandosi, le profondità terrestri rimbombavano paurosamente a causa dei suoi rantoli. I terremoti, secondo i nordici, sono soltanto l'ultimo, esile, quasi inconsistente riflesso di tali sobbalzi provocati dalle sofferenze di Loki.

 

Il Destino Degli Dèi

Celebrato e rimodellato dall'estro compositivo wagneriano, il racconto della consumazione finale del cosmo e della successiva palingenesi è da considerarsi la sintesi organica ed articolata di una miriade di motivi sparsi nei contesti più distanti. Le accurate analisi svolte da eminenti studiosi su singoli temi hanno evidenziato, infatti, i sorprendenti paralleli con analoghe tradizioni (concezioni mandeo-manichee, celtiche, cristiane, etc.). Del resto, dimostrando una vitalità eccezionale, tracce di tali tematiche sono tuttora presenti nel patrimonio folklorico nord-europeo: si pensi, ad esempio, alle unghie dei morti da tagliare ed ai cerimoniali connessi.


Non senza esitazioni, gli antichi nordici narravano delle profezie di una volva, una veggente che, ispirata da un'entità suprema, aveva annunziato la fine dei tempi e narrato i tragici avvenimenti che avrebbero sconvolto il cosmo intero, accomunando dèi e uomini nel medesimo de- stino. Innanzitutto, ella disse, un tremendo stravolgimento climatico avrebbe sconvolto i ritmi naturali dell'alternarsi delle stagioni: ci sarebbe stato un lungo inverno, chiamato Fimbulvetr, «grande inverno», che sarebbe durato tre anni di seguito, senza alcuna mitigazione. Piogge torrenziali, venti taglienti, grandinate eccezionali, avrebbero tormentato il globo terrestre, ricoprendolo di una densa ed impenetrabile coltre di gelo. Ma, prima ancora, il mondo sarebbe stato dilaniato da innumeri guerre, formentate da spiriti bellicosi venuti non si sa da dove. E l'immane spargimento di sangue non avrebbe risparmiato i fratelli che, caduti i sacri vincoli familiari, si sarebbero affrontati in scontri cruenti, spinti dalle invidie e dall'avidità. Sarebbero state violate anche tutte le regole della convivenza sociale e turpi misfatti sarebbero stati compiuti in quel clima d'anarchia morale: i padri avrebbero sedotto le figlie; la prostituzione sarebbe fiorita e dilagata; l'adulterio non avrebbe conosciuto limiti. L'abiezione e la depravazione, insomma, sarebbero stati gli unici ideali del genere umano. I segni dell'imminente crollo si sarebbero moltiplicati, arrecando avventure immani. Così il lupo Skoll, che dall'inizio dei tempi insegue l'astro solare' avrebbe inghiottito il carro del sole e, subito dopo, la terra sarebbe stata avvolta nelle tenebre. Nello stesso istante Hati, il lupo impegnato nella rincorsa della luna, avrebbe fatto sparire tra le sue possenti fauci l'astro notturno. Contemporaneamente tutte le stelle sarebbero cadute daI firmamento, spogliandolo dei punti di riferimento necessari per indicare la rotta ai naviganti costretti così a vagare nell'immensità degli oceani, prigionieri dell'oscurità. La völva continuava: la terra sarebbe stata scossa da terribili terremoti, si sarebbero aperte delle voragini spaventose, che avrebbero inghiottito foreste millenarie e montagne intere. Allora tutte le catene si sarebbero spezzate: il lupo Fenrir sarebbe stato libero di vagare per il mondo, seminando morte e distruzione. Anche il «serpe del mondo», confinato nelle profondità oceaniche, sarebbe riemerso dal suo esilio e, dimenandosi furiosamente, avrebbe provocato tremendi meremoti, inondando valli intere, sommergendo città e affogando migliaia di uomini inermi. Tutte le navi avrebbero rotto gli ormeggi: Naglfar, il vascello costruito con le unghie dei morti, avrebbe lasciato il suo porto infernale per trasportare le forze dei male. Il gigante Hrymr, signore dei malefici colossi del gelo, avrebbe retto il timone mentre Fenrir avanzava con le fauci spalancate: la mandibola superiore toccava il cielo, quella inferiore pog- giava sulla terra; dalle nari e dagli occhi lanciava vere e proprie montagne di fuoco. Il serpe del mondo avrebbe strisciato al fianco di Fenrir, soffiando incessantemente il suo veleno tutt'intorno, tanto che una nebulosa avrebbe avvolto la terra intera. I mostruosi figli di Loki sarebbero stati affiancati dai sinistri abitanti di Muspellheim, guidati da Sutr, il «nero», che brandiva una spada sfolgorante, incurante delle lingue di fuoco che lambivano la sua cavalcatura. Le schiere malvage sarebbero passate su Bifrdst, il ponte che conduceva alla cittadella divina, ma la «tremula via» sarebbe crollata sotto il loro infamante peso. Allora, preparandosi allo scontro finale, i signori del terrore avrebbero raggiunto la piana di Vigridhr: qui avrebbero trovato, loro alleati naturali, Loki, sfuggito alla sua prigionia, e tutti gli adulteri, gli assassini, gli spergiuri, insomma, tutta la feccia dell'umanità esiliata negli oscuri recessi di Hel. Senza sosta, dando fondo alle sue energie, Heimdallr, il custode di Bifróst, avrebbe soffiato nel suo corno, chiamando a raccolta gli dèi. E ben conoscendo le profezie della veggente, Odino avrebbe cavalcato fino alla Fonte di Mimir, dove avrebbe interrogato, ricoprendola di erbe magiche e pronunciando le rune delle vita, la testa del dio della memoria, per chiedergli consiglio. Odino avrebbe chiamato a raccolta i suoi campioni, i fedeli einheriar, gli indomiti guerrieri della Vaìhalla e, insieme a tutti gli Asi, sarebbero avanzati verso il campo di battaglia. Descrivendo la scena con lucidità estrema, la volva scendeva nei minimi particolari, dicendo che Odino, in groppa al suo destriero ottipede e con l'elmo d'oro massiccio e Gungnir nella mano, sarebbe stato davanti a tutti, guidandoli fieramente. Ed in brevissimo tempo le due armate sarebbero state una di fronte all'altra, pronte ad affrontarsi in quell'ultima sfida. Odino, scegliendosi un nemico degno del suo rango, avrebbe puntato diritto contro il famelico Fenrir, per nulla intimorito delle zanne che la bestia gli mostrava minacciosa. Ma il mostro, tra il frastuono delle armi, avrebbe avuto la meglio sul padre degli dèi e, con una mossa fulminea, lo avrebbe imprigionato tra le sue fauci, facendolo scomparire nel suo ventre immondo. Di lì a poco, però, sarebbe accorso Vidharr, uno dei figli di Odino che coraggiosamente avrebbe affrontato la belva e, ficcandole un piede nelle mascelle, sarebbe riuscito a stritolarle. Vidharr, in quell'occa- sione, avrebbe calzato una scarpa fabbricata con i ritagli di cuoio che gli uomini, nel corso dei millenni, avevano tagliato dalle loro calzature in prossimità dell'alluce e del tacco e poi gettato via. Perciò chi voleva aiutare gli Asi nello scontro finale doveva, dicevano i nordici, tagliare un po' di cuoio dalle proprie scarpe e gettarlo via, consacrandolo con formule misteriore al figlio di Odino. Intanto la vólva continuava il suo racconto: Thor, facendosi strada con i colpi micidiali del suo martello, avrebbe affrontato il suo nemico di sempre, l'odiatissimo rettile che cingeva tra le sue spire il globo terrestre. Il rosso signore dei tuono sarebbe riuscito a scagliargli contro Mjdlnir, fra- cassandogli la testa. Ma, investito dalle esalazioni malefiche del serpe, Thor, dopo aver fatto solo nove passi, sarebbe stramazzato al suolo, privo di vita. Stessa sorte sarebbe toccata a Tyr, impegnatosi in un'impari lotta contro l'orrendo mastino posto a guardia di Hel. Il cane infernale, il famigerato Garmr, avrebbe divorato il dio monco che però, seppure al limite delle sue forze, sarebbe riuscito a colpirlo a morte. Freyr invece non avrebbe potuto difendersi contro Sutr, il principe del male: ai tempi del suo innamoramento per Gerdhr, infatti, il dio aveva regalato la sua spada, arma dotata di stupefacenti poteri, al suo severo ed amico Skirnir. E disarmato non poteva certo opporsi alle fiamme che il «nero» gli avrebbe lanciato contro. Ormai padrone del campo, Sutr avrebbe appiccato il fuoco alla terra e a tutto l'universo: tutto il creato sarebbe bruciato, divenendo un'enorme sfera incandescente. La vecchia veggente vide nelle sue visioni di morte anche un barlume di speranza: disse infatti che la vita non avrebbe avuto fine. Dal mare sarebbe emersa una nuova terra, una sconfinata distesa verde, tutta rico penta di vegetazione rigogliosa: non ci sarebbe stato bisogno dei semi, tutto sarebbe germogliato spontaneamente ed i frutti sarebbero stati di proporzioni eccezionali. Per quanto riguarda gli dèi, dall'eccidio sarebbero scampati i figli di Odino, Vali e Vidharr; anche Magni e Modhi, figli di Thor, sarebbero riusciti a salvarsi, recuperando il martello paterno; Balder sarebbe ritornato da Hel, accompagnato dall'innocente Hddhr. E tutti insieme avrebbero costruito le loro dimore proprio al centro di Asgardh, a ldhavdllr. Qui, ritrovata la pace, avrebbero conversato tra loro, ricordando le vicende dei padri ed impegnandosi in giochi di intelligenza. I morti caduti per il bene dell'umanità sarebbero andati a vivere a Gimlé, nuova dimora celeste, dove avrebbero potuto bere dell'ottimo idromele nella sala chiamata Brimir, nei territori di Okoìnir, laddove non «fa mai freddo» (dall'antico significato della parola). Ed inoltre avrebbero avuto a disposizione anche un'altra dimora, tutta d'oro massiccio, chiamata Sindri. Invece, a Nástrond, la «riva dei inorti», i rnalvagi avrebbero soggiornato in un'immensa costruzione, priva di qualsiasi bellezza, il cui tetto sarebbe stato coperto da una moltitudine di serpenti che, intrecciandosi tra loro in un groviglio inestricabile, l'avrebbero avvolta nelle loro spire, iniettando fiumi di veleno al suo interno. La casa, simile ad una di quelle fabbriche dove si lavorava il vimine, sarebbe stato il luogo di supplizio destinato agli spergiuri, agli adulteri e agli assassini, costretti per raggiungerla a guadare a nuoto un fiume di liquami urticanti. La veggente concluse la sua visione parlando della foresta di Hoddmimir. Qui sarebbero sopravvissuti alle distruzioni e agli sconvolgimento cosmici, una coppia di uomini, Lif, «vita», e Leifthrasir, «vita piena di desiderio». I due si sarebbero cibati solo delle gocce di rugiada mattutina e, eseguendo i disegni di un'insondabile volontà divina, avrebbero messo al mondo, al «nuovo mondo», una numerosa progenie, gli antenati di una nuova stirpe umana. E, come ultimo segno della totale palingenesi, il sole, astro femminile, avrebbe partorito una fanciulla più bril- lante e risplendente di lei che avrebbe illuminato i nuovi giorni, infondendo calore e benessere ad un'umanità felice.

 

Il Furto Delle Mele Di Idhunn

Il sogno di un'eternagiovinezza il poter fermare l'inesorabile trascorrere dei giorni con qualche incantesimo ignoto ai comuni mortali, è riflesso, sotto varie forme, in molte tradizioni. Il mito nordico, trovando sorprendenti paralleli con quello greco dei giardino delle Esperidi, racconta di splendidi pomi d'oro, inestimabili frutti destinati agli dèi che, accogliendoli sulle loro mense, sono preservati dalle ingiurie della vecchiaia.

Anche gli dèi, nelle fredde ed interminabili serate invernali, amavano aflietare i loro ospiti con il racconto di vicende accadute in tempi remoti e, rinnovando il ricordo dei pericoli superati, trarre preziosi insegnamenti e speranze per il futuro. Quella sera il sacro concilio degli Asi aveva accolto il re Aegir e, dopo un sontuoso banchetto, Bragi, il più abile tra loro nella nobile arte della conversazione conviviale, si alzò ed iniziò a raccontare come, «tanto tempo fa ... », gli dèi avessero perso e riconquistato le mele di ldhunn. Ovviamente tutti i presenti conoscevano lo straordinario potere celato negli aurei frutti custoditi gelosamente da ldhunn, moglie di Bragi, in una cassettina di frassino. Essi infatti iniettavano, per così dire, sempre nuova vita nelle vene divine, infondendo loro una inesauribile linfa vitale che invano fattucchiere e maghi tentavano di ricostruire in pozioni e filtri destinati ai creduloni. Bragi, accarezzandosi la fluente barba, narrò di quando Odino, Loki e Hoenir uscirono dalle mura di Asgardh, tentando ancora una volta di soddisfare il loro inesauribile desiderio di avventura. il trio divino, marciando senza sosta, visitò diverse contrade, scalando monti ed attraversando valli, contemplando paesaggi mai scorti da occhio umano. Immersi nella solitaria bellezza di fiordi incontarninati e respirando quell'aria frizzante, forse più celestiale di quella di Asgardh, gli dèi ebbero fame, bisogno umanissimo presente, e con proporzioni cormmisurate alle loro doti, anche negli Asi. I divini viaggiatori udirono, proveniente da una valle attigua, il caratteristico rumore di una mandria di buoi al pascolo. Quei muggiti suonarono alle loro orecchie come una musica dolcissima e in un attimo si avvicinarono agli animali, davvero esemplari magnifici, e catturarono il bue più in carne, quello più degno di figurare in un banchetto divino. Non restava che allestire un gigantesco seydir. ripetendo gesti che gli antichi nordici ben conoscevano, gli dèi scavarono una profonda fossa nel terreno e, tra due lastre di pietra arroventate dal fuoco, misero il bue, ricoprendo il tutto con un coperchio vegetale fatto di rami e di foglie. Con sapienza, di tanto in tanto, soffiavano sul seydir, mantenendo la brace costantemente ardente. Ma quando, passato il tempo necessario, pensarono che il bue fosse ormai cotto, si accorsero che l'animale era ancora crudo: come se l'intenso calore sprigionato da quel forno primordiale non lo avesse lambito nemmeno per un istante. I tre allora ricoprirono il seydir con il fogliame e, dopo aver ravvivato ulteriormente la brace, si rimisero in paziente attesa. Trascorso un bel po' di tenipo, gli dèi, certi ormai di colmare il loro crescente appetito, si avvicinarono al seydir e lo scoprirono: anche questa volta però la carne era rossa, sanguinolenta, assolutamente immangiabile. Di fronte a quel mistero i tre rimasero di stucco e, animatamente, presero a discutere tra loro, tentando di capire come potesse essere accaduta una cosa del genere. Ma nemmeno il padre degli dèi, riusci a fornire con la sua sapienza una spiegazione di tale insolito e sconcertante avvenimento. Avviliti e delusi, i tre stavano per abbandonare quel luogo sicuramente impregnato di oscure malie, quando, dai rami di una quercia, sentirono una voce. I tre si voltarono di scatto e videro un'aquila gigantesca: fieramente appollaiata, la «signora degli uccelli» affermò con tono deciso di essere stata lei ad impedire la cottura dell'animale. Il maestoso rapace, destando sempre più la curiosità divina, aggiunse che essi avrebbero inutilmente tentato di cuocere il bue se prima non le avessero offerto una porzione. I tre, dopo una breve consultazione,
acconsentirono: temevano che sotto le spoglie dei volatile si celasse una potenza locale da ossequiare. Come d'incanto, il profumo del bue cotto si sparse immediatamente tutt'intorno, stimolando ancor di più i sensi degli dèi. Planando con le possenti ali sul seydir, l'aquila prelevò con gli artigli la sua porzione: due cosce e le due spalle! Davvero un consistente «boccone» sottratto all'appetito divino e, senza dubbio, un'affermazione di superiorità che suonò come un cocente affronto alle orecchie di Loki. Il dio, rompendo il doppio vincolo del patto e delle regole di ospitalità, afferrò una pertica e prese a colpire l'ingordo rapace. Con estrema agilità l'aquila riuscì a stringere con gli artigli l'asta e con un possente battito d'ali s'alzò in volo, trascinando il furioso Loki aggrappato all'altro capo della pertica. L'aquila si allontanò velocemente, raggiungendo altezze smisurate, fino a sfiorare le sommità dei monti. Loki, involontario fardello, si agitava disperatamente: più volte i suoi piedi urtarono contro le cime di altissime querce, causandogli atroci dolori ed orrende ferite. E temendo di precipitare, dato che sentiva le braccia staccarsi dal tronco, Loki supplicò l'aquila di depositarlo da qualche parte: in cambio le avrebbe dato qualsiasi cosa. Il rapace, con un ghigno feroce, rispose che lo avrebbe risparmiato solo se gli avesse portato le mele dell'eterna giovinezza custodite da ldhunn. Pur di placare l'ira dell'aquila ed evitare una morte tremenda, Loki promise di portarle i sacri pomi, sottraendoli alla loro depositaria. Così Loki ebbe salva la vita e, tornato ad Asgardh, iniziò ad elaborare uno dei suoi piani truffaldini per aggirare l'ignara ldhunn. Puntando sulla vanità che alberga in ogni cuore femminile, Loki le si avvicinò raccontandole con il suo tono suadente e mellifluo che in un bosco, poco distante dalle mura di Asgardh, esistevano delle mele molto più belle d quelle da lei custodite. Ornando le sue parole con incomparabile abilità riuscì a convincerla a recarsi con lui nel bosco, portando con sé le preziose mele per confrontarle con i favolosi pomi che aveva veduto. Giunti fuori le mura di Asgardh, lontano dagli sguardi divini, Loki condusse ldhunn in una radura circondata da alberi secolari. All'improvviso udirono uno sbattere fuimineo di ali il tipico segnale d'arrivo delle aquile e difatti apparve l'aquila che tanta impressione aveva fatto sul trio divino. Loki, ben conoscendo la potenza del volatile, si fece da parte, lasciando la povera ldhunn in balia dei possenti artigli del rapace che, scorta la sua preda, l'afferrò, portandola con sé verso mete remote. Prima di spiccare il volo però, l'aquila svelò la sua vera identità: era il gigante Thiazi, signore di Thrymheim, uno dei più importanti regni dello Jótunheim. Ora che non potevano più addentare le portentose mele ed assaporarne la fresca polpa rivitalizzante, gli dèi divennero grigi, malsicuri sulle gambe, offrendo lo spettacolo non certo esaltante di una improvvisa caducità. Ovunque in Asgardh regnava la malinconica rassegnazione che contraddistingue i vecchi, desiderosi solo di por fine ai loro giorni. Le mele e la loro custode erano sparite da un giorno ab'altro: sicuramente c'era stato un traditore, un vile che aveva consegnato il segreto dell'eterna giovinezza nelle mani dei loro nemici. Odino, anch'egli affiìtto dagli acciacchi della vecchiaia, convocò l'assemblea divina per scoprire e punire l'eventuale traditore. Non ci volle molto per appurare che l'ultimo ad essere stato visto insieme ad ldhunn era stato Loki e, conoscendo la sua innata malvagità, fu facile capire che lui solo avrebbe potuto macchiarsi di una colpa così infamante. Gli dèi si strinsero intorno a Loki e, coprendolo di sguardi di odio, minacciarono prima di torturarlo e poi di ucciderlo se non avesse riportato tra loro gli aurei pomi. Come era solito fare in occasioni simili, Loki si fece prestare da Freya il manto di penne di falco che ella possedeva e, indossatolo, spiccò il volo, diretto alla terra dei giganti, nel lontano Nord. Dopo un po' avvistò la dimora di Thiazi e, muovendosi con abilità nel suo travestimento pennuto, atterrò lì vicino. Con circospezione si avvicinò ad una finestra della reggia e, visto che il gigante non c'era, vi penetrò. Qui trovò ldhunn in lacrime: era divenuta la serva di Thiazi. Ma la dea gli disse di non temere: il gigante era uscito in barca per una delle sue solite battute di pesca e sarebbe ritornato più tardi. Senza perdere tempo, Loki, con un incantesimo, trasformò ldhunn in una minuscola noce e, tenendola stretta con i suoi artigli posticci, si alzò in volo, sperando di riuscire a mettere tra sé ed il gigante una sufficiente «distanza di sicurezza». Intanto però Thiazi era ritornato e, accortosi dell'assenza della dea e dei suoi pomi, si trasformò nell'aquila ormai famosa e si lanciò all'inseguimento dei fuggitivi: in brevissimo tempo avvistò lo strano falco che si dirigeva veloce come il vento verso la cittadella divina. Gli dèi scorsero nel cielo di Asgardh Loki ed il suo inseguitore e, secondo una tattica già attuata altre volte con successo, formarono grossi mucchi di trucioli e li misero al centro della piazza della città. Quando Loki ed il suo passeggero atterrarono, gli dèi appiccarono il fuoco. L'aquila, che nel tentativo di ghermire il falco si era abbassata fino a toccare terra, fu lambita dalle fiamme che, ormai altissime, si levavano dalle pire di trucioli. Pronti a raccogliere i frutti di quell'insolita «contraerea», gli dèi trafissero con le loro lance Thiazi. L'eco dell'impresa di Loki e dell'uccisione di Thiazi giunse fino ai gelidi territori dei giganti. Skadhi, la figlia di Thiazi, animata dalla disperazione e dall'odio, si preparò a
soddisfare la sua sete di vendetta. Armata fino ai denti d'una pesante corazza e d'uno spesso elmo, Skadhi si presentò fiera e minacciosa alle porte di Asgardh. La sua presenza intimorì non poco gli dèi che ben conoscevano la furia devastatrice della forza e dell'odio, una miscela esplosiva che più di una volta aveva animato le feroci incursioni di giganti incolleriti. Per tentare di evitare morte e distruzioni, gli dèi inviarono messaggeri proponendole di scegliersi uno di loro come sposo, a patto, però, che lo scegliesse guardando i loro piedi, senza cioè poterne conoscere l'identità. Insomma le offrivano la possibilità di divenire una dea, un essere venerato dai mortali. La proposta piacque alla gigantessa che però pose un'ulteriore condizione per rinunziare alla vendetta: gli Asi dovevano farla ridere. Il concilio divino accettò la bizzarra richiesta e si diede il via, come prima cosa, all'inusuale cerimonia di «scelta dello sposo». Gli Asi si presentarono al cospetto di Skadhi con il corpo completamente coperto dagli indumenti: solo i piedi erano visibili. Esaminando le estremità divine, la ragazza scelse il dio che aveva i piedi più bianchi: pensava che fosse Balder, il figlio di Odino celebre per la sua bellezza ed innocenza nonché per il candore della carnagione. Ma Skadhi si era lasciata trarre in inganno: si trattava di Njdrdhr, il dio che aveva perennemente i piedi nel mare, cosicché
la salsedine glieli aveva completamente imbiancati. Bisognava adesso soddisfare la richiesta di Skadhi, ma nessuno, guardando il volto accigliato e corrucciato della gigantessa, pensava che si sarebbe lasciata andare al minimo segno di allegria: era davvero impossibile immaginare un racconto faceto o una figura comica capace di rimuovere da quel viso la rabbia e la tristezza. Eppure la fantasia perversa di Loki, dominatore assoluto in simili occasioni, escogitò una scena davvero esilarante: il signore degli inganni legò una corda alla barbetta di una capra e, denudatosi, fissò l'altro capo della fune al proprio scroto. La capra ed il dio, intimamente legati, si tiravano l'uno con l'altro ed emettevano, ognuno secondo la sua natura, delle grida di dolore. Loki, poi, con una vocettina querula, mischiava alla schietta espressione di dolore dei gridolini di piacere, simulando una grossolana eccitazione. La scenetta ebbe termine quando Loki, mimando gli spasimi che precedono l'orgasmo, si lasciò cadere sul grembo della gigantessa che, non potendosi più trattenere, proruppe in una sonora risata. Gli antichi poeti nordici, nel raccontare questo episodio, ricordavano come il riso smuova ogni situazione di crisi, sanando ogni screzio con la sua gaia sonorità. Skadhi si riconciliò con gli Asi che l'accolsero tra di loro. Odino infine, quale ulteriore guidrigildo per la morte del padre, trasformò gli occhi di Thiazi in due stelle, che gli antichi nordici sapevano individuare nell'affollato firmamento: erano chiamate «occhi del gigante».

 

Kvasir Poersia

Il «furore» non è solo quello che anima i micidiali guerrieri devoti ad Odino, ma è presente anche nella tematica affascinante e misteriosa della creazionepoetica, laddove ilpoeta nordico si considera invasato da un «sacro fuoco» che lo sconvolge. Nella tradizione nordica Odino diviene perciò il dio dei poeti, l'ispiratore ed il creatore stesso del poetare inteso come rapimento estatico che conduce all'estraniamento dal proprio sé. Un lungo e complesso racconto mitico fonda ed alimenta tale tradizione, arricchendola di stratiftcazioni e di significati simbolici presentando Odino come il portatore della poesia tra gli uomini. P In quell'epoca remota, tempo felice in cui gli uomini potevano ancora guardare in faccia gli dèi e parlarci, il saggio Kvasir, l'orgoglioso figlio degli sputi divini degli Asi e dei Vani, girava per il mondo. Messaggero della suprema saggezza che aveva allontanato la rovina e le distruzioni causate dalla «prima tra le guerre», egli rispondeva a qualsiasi quesito, anche se difficilissimo: era il ritratto vivente della pacata sicurezza del saggio, immagine limpida della sincerità e della innocenza. Un giorno, durante una di quelle sue peregrinazioni terrestri, Kvasir capitò a casa di due nani, i fratelli Fialarr e Galarr. Ignaro della perfidia e della malvagità che regnavano in quel mondo, Kvasir offrì il suo sapere ai padroni di casa, esponendo con semplicità i segreti della vita umana, i capisaldi di una filosofia della felicità. Ma i nani, personificazioni abnormi della viltà e dell'ignoranza più ottusa, non sapevano che farsene delle sentenze di un essere saccente e noioso. Irritati ed annoiati, i perfidi fratelli uccisero il figlio dei dèi con uno stratagernrna, nella cui arte erano maestri. Non ancora paghi dell'orrendo crimine, i due nani si macchiarono di un altro scellerato misfatto: recisero le vene di Kvasir e ne raccolsero il sangue in tre recipìenti. Son, Bodhn e Odherir - «ciò che eccita lo spirito» - furono i nomi che diedero ai truci contenitori. Al prezìoso liquido, succo vitale estratto dal più saggio degli esseri, aggiunsero del miele, producendo un idrornele capace di far diventare poeta o studioso chiunque avesse avuto la fortuna di berne anche una sola minuscola goccia. Agli dèi, insospettiti per la scomparsa di Kvasir, i due malvagi fratelli dissero che egli era morto soffocato dal suo stesso sapere. Dopo alcuni giorni, a casa dei due assassini arrivarono, chiedendo ospitalità, il gigante Gillingr e sua moglie. E anche questa volta i due nani infransero le sacre regole dell'ospitalità, confermandosi biechi servitori delle forze del male. Invitarono il gigante a fare una gita in barca con loro e, secondo un piano degno della loro scelleratezza, lo gettarono in mare, ben sapendo che non sapeva nuotare. Ovviamente il gigante affogò, patendo impotente la violenza dei marosi e l'astuzia dei nani. Intanto la moglie del gigante, affranta per la scomparsa dello sposo, non smetteva mai di piangere e di lamentarsi. Ma le sue calde lacrime non potevano certo intenerire due campioni di malvagità come Fialarr e Galarr: le litanie dell'infelice e sventurata vedova finirono con l'esasperare Fialarr, stanco di essere tormentato dal suono monotono delle sue lamentazioni. Cosi, d'accordo con il fratello e rinnovando la tacita intesa di cattiveria che li univa, decise di eliminarla. Si trattò di una fine orribile: promise di condurla sul luogo esatto dove era affogato Gillingr. Ma quando la donna si affacciò sulla porta per seguire il nano, Galarr, appostatosi in alto, le fece cadere sulla testa un enorme macigno ricavato da una vecchia macina di mulino. Un tremendo spettacolo si offrì alla vista dei due che, soddisfatti della loro crudeltà, contemplarono i frammenti di cervello spappolato che lordavano il terreno circostante. Nello Jdtunheim, intanto, il figlio di Gillingr, il feroce Suttungr, non riusciva a capire come mai i suoi genitori non fossero ancora ritornati dal loro viaggio e, temendo che fosse accaduto qualcosa di spiacevole, si mise in cammino, ripercorrendo lo stesso itinerario dei genitori. Suttungr, dopo alcuni giorni di marcia, giunse nei pressi dell'abitazione dei nani assassini: non ci volle molto per indagare e conoscere i loro crimini. Deciso a non lasciarsi irretire dalla malefica astuzia dei nani, il gigante catturò i due fratelli prima che potessero capire chi fosse. Memore delle sofferenze inflitte ai genitori, egli studiò un castigo esemplare: li legò saldamente ad una roccia che doveva essere sommersa dalla prossima marea. Una morte lenta causata dalle gelide acque marine era proprio ciò che meritavano! Ma anche questa volta Fialarr e Galarr, sicuramente protetti da qualche divinità maligna, riuscirono a farla franca: prima che le onde iniziassero a lambire lo scoglio, promisero a Suttungr il prezioso idromele della saggezza se li avesse lasciati liberi. Il gigante non seppe resistere alla tentazione di divenire il possessore di un tale inestimabile tesoro agognato dagli dèi e dagli uomini, ed accettò, sacrificando i doveri filiali sull'altare della propria ambizione. Avuto il sensazionale liquido, Suttungr fece ritorno nella terra dei giganti. Qui, conscio del valore dei tre recipienti, nascose il prezioso bottino in un anfratto roccioso chiamato Unitbjorg, «roccia del catenaccio». Nell'oscura caverna, a guardia del tesoro costato la vita dei suoi genitori, Suttungr esiliò la sua giovane figlia, la bella Gunnlddh, unica persona al mondo della quale sapeva di potersi fidare. In Asgardh, però, erano stati in pochi a credere alla versione dei nani: Odino poi, con il suo dono dell'onniveggenza, conosceva bene il vero svolgimento dei fatti e preparava la sua vendetta. Il padre dei dèi, indossati i panni di uno dei suoi innumeri personaggi terrestri, partì deciso a riconquistare l'idromele divino. Dopo un lungo viaggio, Bólvekr, -«malfattore» - questo il nome assunto dal dio in tale occasione -, arrivò nella terra dei giganti. Qui, in un campo sconfinato, nove giganti stavano tagliando con le loro immense falci le bionde spighe di grano maturo. li «malfattore», adoperando tutta l'eloquenza di cui era capace, propose ai giganti di affilare le lame delle loro falci con una pietra che, assicurò, avrebbe dato risultati eccezionali, raddoppiando la velocità del taglio e dimezzando la loro fatica. Difatti, dopo l'affilatura, le falci divennero leggerissime: le spighe cadevano al suolo ad un ritmo mai visto e i nove colossali contadini non credevano ai loro occhi. Immaginando quanto lavoro avrebbero risparmiato con quel portentoso utensile, chiesero al misterioso viandante il prezzo della pietra molaia. L'arrotino ambulante, con sottile ironia, preannunciò che in ogni caso sarebbe stato un prezzo altissimo e, all'improvviso, scagliò in aria la mola. I nove, nel tentatìvo dì afferrarla e di impadronircene, si azzuffarono violentemente, formando una mischia inestricabile: la pietra, che intanto stava volteggiando su di loro, precipitò come una bomba sul groviglio di membra gigantesche. Dopo l'impatto con l'insolito proiettile, si vide il campo di grano irrorato dai fiotti di sangue dei giganti, dilaniati e menomati da tremende ferite. Il proprietario del terreno, Baugi, fratello di Suttungr, scoprì subito i cadaverì ormai in putrefazione dei suoi contadini. Proprio in quell'istante, seguendo un preciso piano, Bolvekr finse di passare per la prima volta da quelle parti: il viandante chiese ospitalità per una notte al gigante, trovando perfino parole di cordoglio per l'inspiegabile disgrazia. Una volta a casa di Baugi, il dio riuscì a convincere il gigante ad assumerlo: gli promise che sarebbe riuscito a fare da solo il lavoro dei nove giganti. Ma pose un'unica condizione: quale ricompensa desiderava solo un sorso della magica bevanda che era custodita da Suttungr. Il gigante, un po' sorpreso per la strana proposta, obiettò che non poteva certo di sporre a suo piacimento degli averi del fratello ma che, comunque, si poteva sempre tentare: in ogni caso, prima i risultati e poi la ricompensa! Bdlvekr, forte dei suoi reconditi poteri, riusci a fare tutto da solo e alla fine dell'estate, consegnò a Baugi una quantità eccezionale di grano. li gigante, stupito ed estasiato alla vista dell'aureo raccolto, non poté che dichiararsi soddisfatto: avrebbe accompagnato l'occasionale contadino dal fratello. Suttungr, nonostante le parole del fratello, rifiutò e, con sdegno, affermò che mai nessuno avrebbe bevuto una sola goccia di quel liquore portentoso. Ma Odino non si arrese: si fece accompagnare da Baugi alla caverna dove era nascosto l'idromele. Qui il dio riuscì a perforare la parete granitica con un trapano fatato e con un altro incantesimo si trasformò in un lungo serpente: in quelle sembianze striscianti penetrò nella fessura. Baugi, attonito ed intimorito, sbirciò nel foro, nel vano tentativo di afferrare il rettile, ma Odino soffiò con forza nella breccia e, simili a dolorosi proiettili, decine di scaglie appuntite trafissero l'incauto gigante. Allora Baugi, accecato e beffato, non potè far altro che inveire contro il contadino-serpente. Intanto, proseguendo nella sua missione, Bólvekr scivolò veloce fino a raggiungere l'antro dove la bella Gunnlddh custodiva gelosamente i tre recipienti. Il serpente sfoderò tutte le sue arco; di eterno tentatole e seduttore defl'animo femminile: per ben tre notti giacque al fianco della bella. Avvinta nelle sue spire, assaporando, dopo una lunga segregazione, le gioie di un fenomenale amplesso, la fanciulla non seppe negare al suo occasionale amante tre sorsi della bevanda da lei custodita. La sete di Odino era davvero senza fondo: con il primo sorso svuotò Odherir; con il secondo Bodhr e, con l'ultimo, anche Son fu svuotato. Raggiunto il suo scopo, il «malfattore», incurante delle lacrime della giovane sedotta, si trasformò in un'aquila e, volando più veloce che poteva, fuggì con in corpo tutto l'idromele. Anche Suttungr, saputo del doppio furto - la bevanda e l'onore della figlia - assunse le sembianze di un grosso volatile e si lanciò all'inseguimento del dio. Dopo un po' i due straordinari uccelli vennero avvistati nel cielo di Asgardh: gli dèi conoscendo la vera identità del maestoso rapace ed il segreto che custodiva nel gozzo, prepararono dei capaci tini nel cortile della città divina ed accesero dei grossi falò. L'aquila-Odino, sentendosi minacciata dal gigante alato, sputò il prezioso liquido nei tini. Intanto le fiamme accese dagli dèi lambirono le ali di Suttungr che, ormai a corto di trucchi magici, stramazzò al suolo. Nella fretta di sputare l'idromele, Odino fece cadere una goccia fuori dalle mura di Asgardh: quella goccia, chiamata «porzione del poeta pazzo», può dare l'ebbrezza del poetare a chiunque riesca a trovarla. Ecco perché gli antichi poeti nordici dicevano che la poesia è un dono o un furto: in ogni caso, poiché l'ìspirazione umana viene sempre da quella unica goccia, folli e poeti sembrano parlare la stessa lingua.

 

La Conquista dell'Oro Maledetto

L'immagine mitica di nani detentori di straordinari tesori, sovente sorvegliati da bestie mostruose, è presente in tutto il folklore europeo. Altrettanto nota è la tradizione dell'eroe che riesce a trafugarli, grazie ad armifatate o ad abili sotterfugi. A questi tesori, creati da oscure potenze etonie, è legata quasi sempre una maledizione, uno scatenarsi irrefrenabile di sciagure e disgrazie che, inesorabilmente, colpiscono gli illegittimi possessori. I tre motivi ora descritti compaiono, collegati l'uno all'altro, nella complessa vicenda narrata qui di seguito.

A volte, celati in antri cavernosi o sotterrati nelle viscere della terra, era possibile rinvenire tesori di inestimabile valore, delle vere montagne d'oro fulvo e di stupendi gioielli. Ma non tutti conoscevano l'origine di tali ricchezze, gli avvenimenti che in tempi remoti portarono alla loro creazione. E nemmeno gli eroi, i leggendari progenitori dei condottieri nordici, impegnati nella conquista degli aurei bottini, ne conoscevano tutti gli intricati retroscena, i significati reconditi e le malie che li circondavano. Accadde così che il celebre Sigfrido conquistasse un immenso tesoro senza conoscerne tutta la storia: il dedalo di remoti avvenimenti che più volte gli antichi poeti narrarono, tentando di dipanarlo e di spiegare le innumeri sventure che vi erano legate. La storia inizia con il trio divino formato da Odino, Loki e Hoenir, inseparabili compagni d'avventura che, annoiati dalla beatitudine celeste, scendevano sulla terra, esplorando il mondo intero. In una di queste loro peregrinazioni, gli dèi giunsero nei pressi di un fiume limaccioso e, per diletto, ne seguirono il corso fino ad una cascata. Qui, seminascosta dalla vegetazione lussureggiante, scorsero una lontra che stava mangiando avidamente un salmone appena pescato nelle acque gelide della cascata. li perfido Loki, approfittando di quel momento, raccolse una pietra dal greto del fiume e, con quanta più forza aveva, la scagliò contro l'ignaro animale, uccidendolo all'istante. Vantandosi di aver preso due prede con un sol colpo, Loki mostrò la lontra ed il salmone ai suoi compagni: avevano fame e quello era proprio il cibo che preferivano! Cosi, senza perdere tempo, si diressero verso una fattoria lì vicino e chiesero ospitalità, aggiungendo che avevano cibo in abbondanza. Era la dimora di Hreidhmarr, un contadino esperto di arti magiche, un uomo molto potente. Hreidhmarr si mostrò entusiasta dell'offerta divina ed apri la porta, invitandoli ad entrare. Ma non appena scorse la lontra nelle mani di Loki, chiamò con un urlo bestiale i suoi figli, Fafnir e Reginn. Con mossa fulminea, padre e figli immobilizzarono gli Asi, cogliendoli di sorpresa. Poi, lanciando loro degli sguardi roventi, il contadino disse che avevano ucciso suo figlio Otr il quale, trasformatosi in una lontra grazie ad uno dei suoi incantesimi, era andato a pescare. Del resto, aggiunse, si chiamava Otr, «Iontra», proprio per questa sua abitudine. Il terzetto divino, ben conoscendo i nefasti influssi delle malie di Hreidhmarr, gli disse d'essere disposto a pagare qualsiasi prezzo, qualsiasi quantità d'oro per ripagarlo della perdita del figlio. Allora, con gesti sicuri, il contadino scuoiò la lontra e ne prese la pelle, facendone un involucro: mostrandolo agli dèi, disse che dovevano portarglielo ricolmo d'oro massiccio e di gioielli. Odino inviò Loki, l'unico adatto a tal genere di missioni, nei territori degli Elfi neri, i nani che dimoravano nelle profondità della terra: solo essi, infatti, possedevano simili tesori. Loki inoltre conosceva bene le vie tortuose del sottosuolo e, forte della sua esperienza di «tessitore d'inganni», sapeva come catturare Andvari, un nano famoso per i tesori che custodiva. Andvari ogni giorno si trasformava in pesce ed andava a tuffarsi nelle acque di un lago: Loki non fece altro che catturarlo mentre si trovava in acqua e, minacciandolo di morte, si fece condurre nella caverna dove era nascosto l'oro. Il nano gli consegnò il suo immenso tesoro: una miriade di monili cesellati in oro finissimo; pepite grosse come pani e gemme preziose in quantità. Andvari, pensando di sfuggire all'occhio vigile di Loki, tentò di trattenersi un anello, un piccolo cerchietto d'oro davvero insignificante in quella marea luccicante. Ma Loki fu lesto: si impadronì anche dell'anello. A nulla valsero le preghiere del nano che sperava, partendo da quell'unico residuo del suo tesoro, di riuscire a riempire nuovamente i suoi forzieri. E fu allora che Andvari lanciò la sua maledizione: chiunque avesse posseduto quell'anello sarebbe stato travolto da un mare di guai. Loki ascoltò le parole del nano e, dando il suo assenso, replicò che lui stesso avrebbe fatto conoscere la profezia ai futuri padroni dell'anello. Carico d'oro, Loki fece ritorno alla casa-prigione di Hreidhmarr e mostrò il suo bottino ad Odino. Il padre degli dèi, inspiegabilmente, prelevò dalla massa aurea l'anello maledetto e lo nascose. Fu chiamato il contadino per procedere al pagamento del riscatto: la pelle di lontra, sicuramente per virtù di qualche magia truffaldina, si gonfiava a dismisura, accogliendo con voracità intere montagne d'oro e preziosi. Ma, alla fine, il budello si riempì, colmo del tesoro di Andvari: mancava solo l'anello sottratto da Odino. Scaltro ed ingordo fino all'inverosimile, Hreidhmarr indicò un minuscolo spazio della pelle rimasto vuoto: bisognava riempirlo, disse, altrimenti non avrebbe rispettato i patti. Allora Odino fu costretto a riempire quel vuoto con l'anello che aveva sottratto di nascosto. Solo allora l'astuto contadino liberò gli dèi. Appena fuori dalla casa, quando non c'era più nulla da temere, Loki raccontò della maledizione di Andvari e, con la dovuta solennità, pronunziò le formule magiche che l'avrebbero attivata: quell'oro sarebbe stato la rovina di chiunque lo avesse posseduto. Prima di narrare il seguito della storia, gli antichi fabulatori facevano osservare che, nei versi dei poeti nordici, era possibile trovare espressioni come «riscatto della lontra» oppurè «riscatto forzato degli Asi» o ancora «metallo del litigio»: tutte perifrasi per indicare l'oro, che si ricollegavano alla storia del prezzo pagato dagli dèi per riconquistare la libertà. Gli influssi malefici dei tesoro non tardarono a manifestarsi: nella dimora di Hreidhinarr scoppiò un furioso litigio. I due figli contestavano al padre il possesso dell'oro: anch'essi, fratelli di Otr, fonte di quell'improvvisa ricchezza, avevano diritto ad una parte del@ riscatto. Ma, stringendo tra le mani callose il forziere ricavato dalla pelle del figlio, Hreidhimarr rifiutò con sdegno di consegnare anche un solo pezzo del «metallo del litigio» a Reginn e Fafnir. E un giorno, con l'animo ormai annebbiato dai sogni di ricchezza, i due fratelli uccisero il padre: l'oro maledetto aveva fatto la sua prima vittima. I due parricidi, però, non ebbero pace: subito dopo si azzuffarono, per spartirsi il maltolto, dimenticando i vincoli di sangue. Alla fine Fafnir, che era il più violento dei due, ebbe la meglio e, senza pietà, cacciò di casa il fratello. Fafnir prese l'elmo fatato usato dal padre per le sue magie: lo chiamavano l'elmo del terrore perché chi lo vedeva tremava, spaventato a morte da quell'orrida visione. Inoltre, sempre saccheggiando il misterioso arinamentario paterno, egli si impadronì della spada, l'invincibile Hrotti e, portando con sé la pesantissima pelle di lontra, si rifugiò nelle oscure contrade di Gnita. Qui, con circospezione, si scavò una tana profonda nella roccia e, recitando arcane formule, si trasformò in un drago, una bestia mostruosa che lanciava lingue di fuoco dalle nari e dalle fauci. Da quel momento, accovacciato sulla pelle di lontra, Fafnir non si allontanò mai dal tesoro, tenendo alla larga chiunque osasse passare per quelle terre. Intanto Reginn aveva iniziato a peregrinare per il mondo, finché un giorno arrivò alla corte del re Hiaìprekr di Thiodhi, divenendo il suo fabbro di fiducia. L'abilità di Reginn, la sua valentìa nel forgiare armi ed utensili, furono conosciute anche nel regno di Sigmund della stirpe dei Volsunghi, che, come allora si usava, decise di affidargli l'educazione di suo figlio Sigfrido. Seguendo gli insegnamenti del suo tutore, questi divenne in breve tempo un nobile condottiero, famoso per la sua maestria nel ma neggiare armi e per il coraggio e la lealtà innati. Quando Reginn ritenne che il suo protetto fosse pronto per imprese degne di essere cantate nei carmi dedicati agli eroi, gli raccontò del tesoro custodito dal drago e, parlandogli del sopruso che aveva dovuto subire, lo convinse a partire per conquistare quelle immense ricchezze. Le mani di Sigfrido brandivano la spada chiamata Garmr, forgiata ovviamente da Reginn: essa aveva una lama talmente affilata che l'eroe riusciva a tagliare in due un filo di lana trascinato dalla corrente di un fiume. E per provarne la solidità Sigfrido aveva colpito con violenza l'incudine di Reginn: la spada non si scalfi minimamente, mentre l'attrezzo metallico si spezzò in due parti, attraversato longitudinalmente dalla portentosa lama. Reginn accompagnò Sigfrido a Gnita e gli mostrò la tana del drago Fafnir: insieme studiarono le mosse del mostruoso custode. Solo una volta al giorno il drago abbandonava la sua caverna, ma sempre con il tesoro ben stretto nelle sue grinfie, per andarsi a rinfrescare nelle acque di un fiume lì vicino. Allora l'eroe scavò una buca lungo il percorso abituale di Fafnir e, senza farsi scorgere dal drago, si calò dentro. Quando, come ogni giorno, Fafnir si mosse, fu costretto a strisciare sulla fossa: con tutta la sua energia Sigfrido gli conficcò, dal basso, la spada nel ventre, dilaniandolo a morte. Solo dopo l'uccisione del drago rispuntò Reginn, che era rimasto nascosto chissà dove, ordinandogli di estrarre il cuore del drago e di arrostirlo: voleva mangiarlo per acquisire i poteri magici del padre. Nel frattempo, il fabbro raccolse il sangue che usciva a fiotti dal corpo del fratello e lo bevve ancora caldo. Subito dopo, saziato dal caldo liquido, si sdraiò e cadde in un sonno profondo. Sigfrido, fedele agli ordini del suo tutore, aveva estratto il cuore di Fafnir e, conficcatolo su uno spiedo, lo stava arrostendo. Poco dopo, per saggiarne la cottura, lo tastò con un dito e si scottò. Avvenne allora un prodigio inspiegabile: l'eroe avvicinò il dito scottato alla lingua per mitigare con la saliva il calore dell'epidermide e, proprio in quell'istante, si rese conto d'essere in grado di comprendere il linguaggio degli uccelli. Ancora stupito per quell'improvvisa virtù, l'eroe udì le parole che, nel loro cinguettio, delle cince gli rivolgevano: esse lo mettevano in guardia contro Reginn, che progettava, dissero, di ucciderlo per impossessarsi dell'oro. Spinto da quelle rivelazioni, Sigfrido si avvicinò con passi felpati al fabbro traditore e, sorprendendolo nel sonno, lo uccise. Poi stipò tutto l'oro appartenuto al nano Andvari nelle borse laterali che portava appese alla sella del cavallo, un magnifico stallone di nome Grani. Nessuno sa come riusci a far entrare quella massa aurea nelle bisacce di cuoio della cavalcatura: evidentemente adoperò una di quelle magie ereditate scottandosi il dito con il cuore di Fafnir. Ormai poteva ripartire, pronto ad accrescere la sua fama con nuove eroiche gesta. E da allora in poi fu famoso come «Sigfrido, l'uccisore del drago».

 

La Disfatta Dei Nibelunghi

Morto Sigfrido, entrano in scena gli illegittimi detentori del suo tesoro, i due fratelli Hógni e Gunnar, principi dei Nibelunghi, destinati a pagar caro il loro delitto. Questo episodio, narrato anche nella seconda parte del Nibelungenlied, seppure privo dei particolari raccapriccianti presenti nell'arcaica versione nordica, è il trait d'union con un altro ciclo di leggende dove Gudhrun, unica superstite, sposa il re Ionakr, innescando così un'ulteriore serie di vendette e di avventure.

La melanconica atmosfera dei giorni di lutto solenne proclamati in onore di Sigfrido rischiava di travolgere in un precoce declino la sua giovane vedova. Gudhrun, infatti, non aveva ancora conosciuto i primi devastanti segni della vecchiaia: il suo volto era fresco e poteva ispirare ancora teneri sentimenti. E in mezzo alla tristezza generale ci fu chi seppe apprezzare il suo fascino discreto. Era giunto alla corte dei Nibelunghi il valoroso re Atli anch'egli colpito da un lutto familiare, l'inspiegabile suicidio della sorella Brunilde. Il condottiero, famoso per la sua crudeltà e spietatezza, seppe trovare le parole giuste per lenire il dolore della giovane vedova di Sigfrido, legandola a sé con delle promesse di matrimonio. Seppure leggermente contrariati, Hógni e Gunnar diedero il loro consenso alle nozze: Gudhrun partì con Atli, per ricominciare una nuova vita in un nuovo regno. Ma Atli, il quale aveva sentito delle voci sul tesoro trafugato dai Nibelunghi, aveva ben altri progetti: sognava la sfavillante massa aurea, i preziosi gioielli su cui erano incastonate gemme di dimensioni eccezionali. Senza farle mai sospettare nulla, iniziò a parlare con Gudhrun di una possibile visita dei suoi fratelli nel loro regno: ormai gli anni erano passati, avevano avuto due figli, eppure non avevano rivisto Gunnar ed Hogni. Giorno dopo giorno, con diabolica maestria, Atli invitava Gudhrun a mandare messaggeri ai suoi fratelli per organizzare una grandiosa festa in loro onore. Intanto, nel regno dei Nibelunghi crescevano i dubbi: c'era chi, nelle pressanti richieste di Gudhrun, vedeva una trappola per impadronirsi del tesoro e perciò sconsigliava la visita; altri dicevano che, rifiutando, avrebbero fornito ad Atli un pretesto, un casus belli per invadere il loro regno; altri ancora, fiduciosi, sostenevano che non c'era nulla da temere. Inoltre, Gunnar ed Uogni erano dilaniati dal sospetto che la sorella avesse scoperto i tragici retroscena della morte di Sigfrido. Dopo lunghe discussioni, i Nibelunghi accettarono l'invito. I due fratelli, però, presero delle precauzioni: innanzitutto, seppellirono il tesoro in un punto del fiume Reno che essi solo conoscevano e, preparandosi ad ogni evenienza, scelsero i migliori guerrieri del regno e, armatili fino ai denti, si fecero scortare. Molti presagi sinistri accompagnarono il viaggio dei Nibelunghi e più di una volta i cavalieri della corte tentarono di dissuaderli, ricordando analoghe profezie che si erano udite da tempo: si parlava di una imminente disfatta del loro popolo, di un'immane sciagura che li avrebbe travolti. Ma, ormai decisi a non venir meno alla loro parola, Gunnar ed Hógni diedero ordine di avanzare. Il corteo dei Nibelunghi, appena varcati i confini del regno di Atli, fu circondato dalle schiere nemiche: migliaia di terribili guerrieri, vere belve umane temute dagli eserciti di tutto il Nord. A nulla valsero i loro tentativi di difesa: in breve tempo vennero sconfitti e, a causa delle crudeltà degli aggressori, si trattò di un massacro in cui perirono tutti i cavalieri della corte dei Nibelunghi. Solo Gunnar ed Hógni scamparono a quell'eccidio, ma conobbero l'umiliazione della prigionia: in catene furono condotti nella reggia di Atli. Qui, secondo una tecnica ben collaudata, vennero separati e, dopo aver subito atroci torture, Ounnar ricevette la visita di Atli. Il re gli confermò le sue supposizioni: voleva il tesoro, solo così, aggiunse, avrebbe avuto salva la vita. Gunnar, sorprendendo il suo carceriere, gli rispose che era disposto a rivelare il posto dove era nascosto l'oro, ma prima dovevano portargli il cuore del fratello. Di lì a poco, con una macabra efficienza, il cuore ancora palpitante di Hdgni fu deposto ai suoi piedi: solo allora Gunnar svelò le ragioni di quella sua crudele richiesta. In quel modo, infatti, era sicuro che il tesoro non sarebbe caduto nelle mani di Atli: egli infatti non avrebbe mai parlato, e nessuno, oltre a loro due, conosceva il punto preciso del Reno dove era stata sprofondata la massa aurea. Ormai fuori di sé per aver provocato inutilmente una strage, Atli fece gettare Gunnar nella fossa dei serpenti. E fu qui che avvenne un prodigio eccezionale: all'improvviso, materializzatasi dal nulla, apparve un'arpa. Gunnar aveva le mani legate, ma, altro prodigio, riusci a suonare lo strumento con le dita dei piedi. La melodia soave e accattivante, paralizzò i rettili, facendoli addormentare. Sembrava proprio che una potenza oscura proteggesse il fratello di Gudhrun. Ma dopo qualche tempo, una vipera si destò dal provvidenziale letargo e, con sinuose movenze, iniziò ad avvicinarsi al ventre di Gunnar. La serpe, come era prevedibile, lo morse, ma lo fece con tale energia che riuscì a penetrare con la testa, nelle viscere dei prigioniero: la vipera strisciò fino al fegato di Gunnar, divorandolo con ingordigia. Il principe conobbe la più crudele delle morti. Nessuno poté mettere le mani sul tesoro dei Nibelunghi, chiamato da allora in poi «l'oro dei Reno». Gudhrun, nel frattempo, aveva appreso della strage del suo popolo e covava una vendetta pari alla crudeltà di Atli. Mettendo da parte il suo amore materno, uccise i due figlioletti avuti da lui e, rivolgendosi ad un fabbro di sua fiducia, fece montare i crani dei due fanciulli su delle basi d'argento e d'oro, ricavandone due macabre coppe. La sera stessa quando Atli organizzò il banchetto funebre in onore di Gunnar ed Hógni, come se nulla fosse successo, la regina riempì personalmente d'idromele le coppe-cranio e le porse al re che, ignaro, bevve con avidità. Il liquido, che era stato addizionato con sostanze stupefacenti, fece crollare Atii in uno stato di ebetudine stuporosa, inibendogli qualsiasi possibile reazione. Fu a quel punto che Gudhrun lo apostrofò con dure parole, ingiuriandolo gravemente e, in un crescendo di indignazione, gli confessò l'orrendo crimine di cui si era macchiata per vendicarsi e gli raccontò dei crani. Infine, vedendo che Atli intontito dalle droghe nemmeno l'ascoltava, l'uccise e subito dopo appiccò il fuoco alla sala, facendo perire in un rogo gigantesco quasi tutta la corte. Stremata per aver assistito a tanta distruzione e morte, Gudhrun si recò fino al fiordo: voleva por fine a quei suoi tristi giorni, così funestati dal sangue dei suoi cari. E si tuffò nelle acque limacciose. Straordinariamente, i frutti gelidi del mare del Nord non travolsero la sventurata regina, ma trascinarono il suo corpo stanco fin sulle lontane spiagge della terra del re lonakr. Per un altro oscuro disegno del destino accadde che la giovane naufraga fosse soccorsa proprio dal re che, di fronte al viso sfatto di Oudhrun, provò un naturale sentimento di compassione, trasformatosi però immediatamente in amore. E cosi, per la terza volta nella sua vita, Gudhrun conobbe i fasti di una reggia: sposò lonakr. Oudhrun visse un lungo periodo di tranquillità, allietato dalla nascita di tre figli: Sorli, Hamdhir e Erpr. E, cosa che la riempiva di gioia, i tre ragazzi avevano i capelli neri come corvi: una caratteristica dei Nibelunghi. Inoltre, era riuscita a riavere, non si sa come, la figlia avuta con Sigfrido, la bellissima Svanhild. Un giorno, il potente re lermunrekkr sentì parlare della leggiadra beltà di Svanhild: dicevano che era la donna più affascinante del mondo, la signora incontrastata della perfezione delle forme e della grazia inuliebre. Allora lórmunrekkr mandò, in qualità di ambasciatore delle sue offerte di matrimonio, suo figlio, il giovane Randver nel regno di lonakr. Ma visto lo splendore dei tratti di Svanhild, il figlio del re dimenticò la missione paterna e, seguendo i suoi desideri, chiese la mano della fanciulla per sé. Qualcuno però riferì la cosa a lórmunrekkr che, risentito per la sfrontatezza del figlio, lo richiamò a corte. Qui, senza alcuna pietà, lo fece rinchiudere nelle prigioni del regno. Il principe, dalla sua prigionia, mandò al padre uno strano regalo: un falco, uno splendido esemplare, ma privo di penne. Il re capì il messaggio e le ingiurie celate nell'innocuo pennuto: come il falco, nobile uccello, privo di penne, non poteva volare, così lui, decrepito e reso impotente dall'età, non avrebbe mai potuto coitare con la bella Svanhild. Ma c'era di più: nell'antico simbolismo, il falco spennato equivaleva all'amante derubato e, con quel regalo, il giovane confessava di aver già goduto i piaceri della principessa «rubandoli», per l'appunto, al padre: l'«amante tradito». Il re, colpito a morte nell'onore, fece impiccare suo figlio e preparò un'orrenda morte per la principessa che gli aveva preferito Randver. Poco dopo, infatti, fece catturare Svanhild e la condannò alla pena destinata alle adultere: morire calpestata dagli zoccoli dei cavalli. Quando Gudhrun vide il cadavere martoriato della figlia avuta dal suo primo, e forse unico, amore, rivisse le tragiche fasi della sua esistenza: le sciagure che, senza un attimo di tregua, continuavano ad abbattersi su di lei. Ed ancora una volta fu costretta a tramare una vendetta: forgiò delle corazze e degli elmi tanto robusti che nessuna spada avrebbe mai potuto scalfirli e li diede ai figli, inviandoli nel regno di lormunrekkr per uccidere il re: Sorli e Hamdhir dovevano mozzargli le mani, mentre Erpr doveva decapitarlo. I tre partirono subito, ma durante il viaggio Sorli e Hamdhir iniziarono a prendere in giro Erpr: non capivano quale era il suo compito, visto che loro due erano più che sufficienti per eliminare il re. E, una parola dopo l'altra, la tensione crebbe fino a quando i tre fratelli litigarono furiosainente: Erpr venne sopraffatto e mori sotto i colpi dei fratelli. I due attentatori giunsero di notte nel palazzo di lormunrekkr e lo sorpresero nel sonno. Eseguendo gli ordini materni, Sorli e Hamdhir gli tagliarono le mani ed i piedi, ma, nonostante il dolore, il re trovò il fiato per chiamare la sua guardia personale. I colpi dei guerrieri reali non avevano alcun effetto sulle armature dei figli di Gudhrun. Ormai immerso in un lago di sangue, il re gridò di colpirli con delle pietre e, afferrati dei massi, le muscolose guardie abbatterono i due. Solo in quell'attimo Sorli e Hamdhir compresero l'enorme sbaglio che avevano fatto quando avevano ucciso Erpr. Ma evidentemente era stato il destino a guidare le loro mani fratricide, affinché la maledizione che perseguitava i Nibelunghi compisse l'ultimo suo atto: da "ora, infatti, la schiatta dei principi «neri come corvi» scomparve dalla faccia della terra.

 

La Nascita Di Sleipnir

Ennesima testimonianza di scaltrezza e d'astuzia unite alla congenita ambiguità sessuale di Loki, il racconto della nascita del portentoso destriero ottipede cavalcato da Odino istituisce un ulteriore collegamento simbolico tra il signore degli inganni ed il padre degli dèi. Questa parentela complica la già problematico classificazione di Loki, ribadendo il suo carattere di dispensatore di affanni e di aiuti allo stesso tempo, pronto a «coprire di vergogna gli Asi» oppure a risolvere con il suo ingegno qualche loro intricata situazione. A quei tempi la rocca di Asgardh aveva come unica difesa contro gli attacchi dei giganti la sua posizione geografica: i bastioni naturali, le rocce scoscese ed i dirupi disseminati tutt'intorno rappresentavano una barriera difficilmente superabile. Ma, considerate l'incredibile forza e malvagità dei colossi dello Jútunheim, gli dèi pensavano, ormai da tempo, di fortificare la cittadella divina con delle mura spessissime, indispensabile ostacolo da opporre alla continua minaccia di attacco. Si racconta dunque che, proprio in quei giorni, si presentò all'assemblea divina un mastro muratore il quale, interpretando i desideri degli dèi, affermò di essere in grado di costruire delle mura così robuste che né i giganti né altre oscure forze del male avrebbero mai potuto distruggere. E, quasi a voler magnificare ancor di più la sua abilità, egli disse di poter svolgere il lavoro in «tre mezzi anni». Gli dèi, di fronte a tanta sicurezza, rimasero senza parole: nessuno di loro aveva mai pensato di realizzare la fortificazione in così breve tempo. Ammaliati dalle parole del mastro e sognando una pace duratura salvaguardata da mura inespugnabili, chiesero all'artigiano come volesse essere ricompensato. Grande fu la meraviglia e lo sconforto degli Asi quando seppero che il mastro pretendeva in cambio della sua opera la bellissima Freya, orgoglio di tutta Asgardh, oltre al sole e alla luna. Si tenne una tumultosa assemblea per decidere sul da farsi e, infine, venne pattuito che il muratore avrebbe ricevuto il suo compenso solo se avesse costruito la fortificazione in un solo inverno e senza farsi aiutare da nessuno. Un po' contrariato, il mastro muratore accettò le condizioni divine, ma chiese di poter utilizzare, quale unico aiuto, il suo cavallo, lo stallone Svadhiìfari: dopo una rapida consultazione ed ascoltato il parere di Loki, gli dèi accettarono. Immediatamente il muratore si mise al lavoro. Nelle gelide notti invernali, sfidando la pioggia e la brina, esponendosi a temperature rigidissime, l'artigiano caricava grossi macigni in groppa al suo cavallo che li trasportava sulla rocca di Asgardh. Di giorno, poi, pietra su pietra, il muratore innalzava mura granitiche, maestose ed imponenti come nessuno mai ne aveva viste. Negli Asi, sebbene fossero avvezzi a ben altri portenti, destava immensa meraviglia vedere tutti quei massi, delle vere e proprie montagne ridotte. in frammenti trasportati senza fatica da Svadhilfari: temevano che, con un simile aiuto, il mastro avrebbe potuto facilmente rispettare i termini di consegna. Dei resto, il contratto era stato stipulato davanti a testimoni e sotto i sacri vincoli del giuramento: non si poteva certo non rispettarlo e infangare cosi l'onore divino. I primi segni dell'estate annunciarono l'imminente scadenza dei termini contrattuali e, perfetta in ogni sua parte, la fortificazione era quasi del tutto costruita. Tre giorni prima dell'estate, quando mancava solo la porta all'intera costruzione, gli dèi, preda dello sconforto, si riunirono in assemblea. Scuri in viso, immaginando l'atmosfera tetra nella quale sarebbe piombata Asgardh dopo la partenza di Freya e la sparizione degli astri più leggiadri, riandarono con la memoria ad un anno prima. Allora, seguendo il consiglio di Loki, avevano accettato l'offerta del mastro muratore, avevano sottoscritto il documento che adesso decretava le loro angosce. Senza dubbio il colpevole era ancora lui: l'architetto d'ogni malvagità, l'ispiratore di mille inganni e tranelli, l'essere senza alcuna coscienza e bontà d'animo, Loki il maledetto. E poco mancò che il signore dell'ambiguità perisse sotto la calca divina che, animata da una furiosa rabbia, gli si stringeva intorno insultandolo e promettendogli tremende pene. A stento Loki riuscì a convincere gli dèi che, nonostante tutto, niente era ancora perduto: con la sua arte avrebbe impedito al mastro di completare l'opera. Non vedendo altra soluzione, gli Asi lasciarono libero Loki, minacciandolo di morte se i suoi piani non avessero avuto successo. Quella sera stessa, mentre era intento a trasportare i pesanti massi, Svadhilfari sentì un nitrito che proveniva dal bosco. L'inconfondibile richiamo equino preannunciava l'arrivo di una leggiadra cavalla che, di lì a poco, gli si parò innanzi. Quella giumenta era davvero una visione! La sua criniera ondeggiava dolcemente, seguendo gli agili movimenti diretti da muscoli stupendi, un vero capolavoro che sembrava uscito dalla bottega di uno scultore ispirato dagli dèi. Inoltre le narici dello stallone erano impregnate di quell'odore impalpabile e indeserivibile, condensato delle voglie amorose risvegliate dalla natura nella bella stagione, che il sesso della cavalla spandeva tutt'intorno. Svadhiìfari, a ragione, non poté sopportare a lungo quel tormento: cedendo all'istinto, strappò le redini ed abbandonò il suo posto di lavoro; liberi di inseguire solo i loro desideri, i due animali galopparono felici tutta la notte. Invano il mastro muratore tentò di catturare lo stallone: solo all'alba, sfinito e sognante, pago dell'avventura notturna, Svadhiìfari si ripresentò al suo padrone. Ma quel giorno, ovviamente, il lavoro non procedette come al solito: il desiderio e la passione ottenebravano ancora la mente dello stallone, ricordandogli le sgroppate sotto la luna, le innumeri danze d'amore equino che gli avevano fatto scoprire il mondo del piacere. Ora che il cavallo non poteva più aiutarlo, il mastro muratore capi che non sarebbe mai riuscito a rispettare i patti. Malmenando lo stallone che, sempre più fiaccamente, trascinava il suo carico di pietre, il muratore prese ad inveire contro tutto e tutti. Le sue grida bestiali, terrificante espressione sonora di una rabbia infinita, risuonarono in tutta Asgardh, richiamando l'attenzione degli Asi. Gli dèi riconobbero in quei suoni disumani la furia tipica dei malvagi abitanti dello Jótunheim: era un gigante, dunque. Come ricorda un antico poeta nordico, «si negarono i giuramenti, le parole date e le promesse e tutti i patti»: con i giganti essi non valevano, con loro si rispettava solo la legge del più forte. Come erano soliti fare in quei casi, gli dèi chiamarono Thor, l'eterno nemico dei colossi del gelo, e, senza nemmeno sentire le sue ragioni, il signore del tuono scagliò Mjdlnir contro il gigante muratore. L'arma sacttò fendendo l'aria e colpì inesorabilmente la gigantesca testa: mille schegge volarono tutt'intorno, disseminando sangue e materia grigia. Il corpo del gigante andò a raggiungere altri cadaveri infami nelle profondità di Hel. Tutti gli Asi resero omaggio a Thor che, ancora una volta, aveva salvato l'onore di Freya e impedito la scomparsa degli astri più cari. Forse fu per questo che nessuno notò un certo gonfiore del ventre di Loki, che era stato il vero artefice di quel salvataggio in extremis. Dopo un certo tempo infatti il dio partorì, tra lo stupore generale, un magnifico puledro, un eccezionale esemplare grigio che, cosa davvero strabiliante aveva otto zampe, tutte perfette. Solo allora si comprese a quale sotterfugio fosse ricorso Loki per distogliere lo stallone del gigante dal suo lavoro. E, tra lazzi ed ammiccamenti, risero degli strani appetiti sessuali del dio, del quale era già nota l'effeminatezza: ma questa stia avventura andava ben oltre i confini dell'inimmaginabile. Solo Odino, osservando il destriero figlio di Loki galoppare veloce più del vento, trovò parole d'elogio per Loki. E, ricordando che una volta «avevano mescolato il loro sangue» divenendo fratelli, gli chiese in dono il cavallo. Da allora, in groppa a Sleipnir questo il nome del frutto del ventre di Loki Odino sfrecciò nel cielo, sulla terra e sulle onde dei mari nordici, rinnovando così l'ambigua alleanza con Loki, il «maledetto».

 

La Principessa Tra Le Fiamme

Evento centrale nella carriera di quasi tutti gli eroi leggendari, la conquista di una bella principessa, dopo aver superato barriere insormontabili: draghi, orchi, streghe, o, come in questo caso, una cortina difuoco, è un altro di quei motivi diffusi nel folklore europeo che ritroviamo nel ciclo di Sigfrido. Nella vicenda qui narrata però, l'eroe fa, per così dire, da controfigura al cognato, fungendo da trait d'union con la seconda parte del ciclo, rispettando così quella coerenza interna di cui abbiamo parlato in precedenza.

Quando giunse nel regno dei Nibelunghi, la sua fama lo aveva preceduto da tempo: tutti conoscevano la sua esaltante impresa, l'uccisione del mostruoso drago che terrorizzava gli abitanti di Gnita. Sigfrido, fierainente eretto sul suo destriero Grani, trasportava il frutto del suo eroismo: le bisacce colme dell'oro appartenuto al nano Andvari. Il re Giuki e sua moglie Grimilde lo accolsero con gioia alla loro corte, presentandolo a tutti i guerrieri ed i signori del luogo. Fu in quell'occasione che l'intrepido Sigfrido conobbe la donna che doveva mutare le sorti della sua vita: l'affascinante Gudhrun, figlia prediletta di Giuki. I due giovani, nel caotico frastuono dei festeggiamenti, riuscirono a ritagliarsi dei brevi attimi di intimità durante i quali si scambiarono teneri sguardi di un amore improvviso. Dei resto la regina, somma conoscitrice dell'animo femminile, aveva già intuito tutto: non ci volle molto per convincere il re e, saltando un inutile periodo d'attesa, celebrare delle nozze fastose, degne di tanta bellezza ed eroismo. Subito dopo la cerimonia, Sigfrido, secondo le antiche usanze, entrò a far parte della famiglia del re, stringendo un patto d'alleanza con i suoi figli Gunnar e Hógni. I fratelli della sposa mischiarono gocce del loro sangue con quello del cognato, unendo così i loro destini "in pace ed in guerra", come recitave la formula di giuramento. Solo Gothorm, figlio adottivo di Giuki, rimase fuori dalle cerimonie: il suo rango non glielo permetteva. Passò del tempo, la leggiadra Gudhrun conobbe le gioie della maternità, mettendo al mondo Sigmund e Svanhild: la coppia di pargoli rallegrava le rare ore di pace di Sigfrido, impegnato con i cognati a guerreggiare in terre lontane, accresciendo sempre più la sua fama. Gunnar intanto si era perdutamente innamorato di Brunilde, sorella dei re Atli. Sul conto della giovane si narravano strane storie: si diceva, per esempio, che era stata una valchiria, una vergine con elmo e corazza e che Sigfrido, in circostanze che nessuno sapeva precisare, durante una delle sue peregrinazioni prima di giungere tra i Nibelunghi, avesse tagliato con la spada la sua armatura. I più maligni poi, considerando anche la sinibolicità di quel gesto, parlavano anche di una tresca amorosa tra i due, aggiungendo particolari piccanti alla storia. Tuttavia, rispettando i vincoli della fratellanza, Sigfrido si offri di accompagnare Gunnar alla corte di Atli, per chiedere la mano della fanciulla. Il re si mostrò ben disposto, ma replicò che la sorella aveva posto una condizione, una prova che il suo futuro sposo doveva superare. Brunilde abitava a Hindafiall, in un palazzo circondato da fiamme, una muraglia incandescente i cui bagliori si scorgevano da molto lontano: il suo pretendente doveva superare in groppa ad un cavallo quell'insolito sbarramento, dimostrando così il proprio coraggio. Gunnar provò più di una volta a fendere le lingue di fuoco, ma il suo cavallo, Goti, che pure era noto per le innuineri vittorie conseguite nelle gare equestri, si rifiutava di saltare, recalcitrando rabbiosamente. Allora Sigfrido prestò il suo Grani al cognato, ma anche questa volta non ci fu nulla da fare: il destriero rifiutava di eseguire gli ordini di un estraneo. Per smuovere quella situazione che durava ormai da giorni, Sigfrido ricorse alle virtù magiche che aveva acquisito scottandosi con il cuore di Fafnir: assunse le sembianze di Gunnar e, con un altro incantesimo, trasformò Grani in Goti. Cosi, montato in groppa al cavallo, l'eroe si lanciò tra le fiamme, superando incolume la barriera di fuoco. Dall'altra parte, felice dì aver trovato il suo spose, Brunilde lo attendeva a braccia aperte. La sera stessa, per espresso desiderio della principessa, si celebrarono, senza eccessive formalità, le nozze. Loro testimone fu Gunnar che nel frattempo aveva assunto, sempre per virtù di una magia, l'aspetto di Sigfrido: ma data la stretta vicinanza non fu possibile pronunciare le complicate formule per ristabilire le vere identità e così Sigfrido passò la prima notte con Brunilde. Tuttavia l'onore di Gunnar fu salvaguardato, perché, come gli aveva promesso, Sigfrido finse di non sentirsi bene e, per evitare tentazioni, pose la sua spada nel letto tra sé e la principessa. L'indomani, secondo la tradizione, gli sposi si scambiarono gli anelli: in quel momento, preso alla sprovvista, Sigfrido aveva con sé solo un anello proveniente dal tesoro di Fafnir. Ed era proprio quello sul quale Advari aveva pronunziato la sua maledizione, profetizzando eterna sventura al suo possessore: ma Sigfrido non lo sapeva. Subito dopo l'eroe chiese di potersi allontanare un attimo per organizzare con i suoi uomini il ritorno a corte. Giunto nell'accampamento, ripeté i suoi incantesimi e tutto, identità e cavalli, ritornò come prima. Naturalmente fu il figlio di Giuki a ritornare nel palazzo di Brunilde, prendendo il posto che Sigfrido gli aveva conquistato. Giunti a corte, si svolsero le cerimonie ufficiali e tutti si congratularono con Gunnar per il suo coraggio. Nessuno, ovviamente, era a conoscenza dello stratagemnia architettato da Sigfrido, tranne, come di solito avviene, sua moglie Gudhrun, alla quale confidava ogni cosa. Il suo carattere fiero, l'innato orgoglio ed una buona dose di sprezzante superiorità resero Brunilde antipatica a Gudhrun. Tra le due serpeggiava quell'astio, quell'odio represso che tante volte è dato osservare quando le «primedonne» si fronteggiano altezzose. Un giorno le due principesse si incontrarono al fiume, dove stavano facendosi lavare i capelli dalle loro ancelle. Dalle occhiate che si scambiavano, si intuiva che, in quella atmosfera esasperata da tanti altri episodi precedenti, sarebbe accaduto qualcosa. All'improvviso, infatti, si udirono le grida di Brunilde: si lamentava, con veemenza, che l'acqua che bagnava i capelli di Gudhrun contarninava quella destinata a lei. E aggiunse, con l'intenzione di ferire la rivale, che lei aveva la precedenza perché suo marito era certamente più coraggioso di Sigfrido. La iniccia era stata accesa: Gudhrun, con un sorriso irriverente sulle labbra, le ricordò le imprese di Sigfrido, l'uccisione dei drago, la conquista del tesoro. Dal canto suo, Brunilde disse che di ben altra gloria si era ricoperto Gunnar quando, sprezzante del pericolo, aveva superato le fiamme, mentre Sigfrido era rimasto a guardare. Allora, non potendo più sopportare i continui affronti, Gudhrun le rivelò la faccenda dei travestimenti. Brunilde, sicura di sé, la sfidò a provare le sue assurde affermazioni. Con un sorriso beffardo la rivale le mostrò un anello: era proprio quello donato da Brunilde al suo intrepido conquistatore dopo la loro prima, inconcludente, notte. Ed infierendo sempre più, Gudhrun descrisse minuziosamente l'anello che Brunilde portava al dito, aggiungendo che si trattava di un misero frammento dei tesoro conquistato da Sigfrido. Umiliata, offesa a morte, avvolta in un desolato silenzio, Brunilde si allontanò, ritornando alla sua diinora. Ma da quel momento, un unico pensiero albergò nella sua testa: uccidere Sigfrido, lavare con il sangue dell'eroe l'onta subita. Tessendo con abilità la sua trappola, non passava giorno senza che Brunilde non spronasse il marito a vendicarla. Contemporaneamente, ella istigava Hógni ad uccidere Sigfrido, facendogli balenare innanzi agli occhi le immense ricchezze di cui sarebbe divenuto padrone. Insomma, con astuzia e perseveranza diabolica, la donna riuscì a convincere i due fratelli. Ma essi, legati dai sacri vincoli di fratellanza, non potevano colpire Sigfrido: bisognava trovare un complice. Contando sull'invidia che provava per l'eroe, avvicinarono Gothorm e gli parlarono del loro piano: conoscevano il punto debole di Sigfrido, l'unico minuscolo frammento della sua pelle che non fosse invulnerabile. Si sapeva, infatti, che quando uccise il drago, il sangue del mostro gli schizzò su tutto il corpo, rendendolo, per un'arcana magia, impenetrabile a qualsiasi colpo di spada o di lancia. Ma tra le ascelle un tratto di pelle non fu bagnato perché, proprio in quell'istante, una foglia cadde da un albero e andò a poggiarvici sopra. Ounnar ed Uogni accompagnarono Gothorm nella stanza dove dormiva Sigfrido e, siccome il figliastro di Giuki non aveva una buona vista, gli guidarono la mano, colpendo l'eroe nel punto fatale. Sigfrido, ormai colpito a morte, afferrò immediatamente la mitica spada Gramr e la scagliò contro il suo aggressore. Gothorm fu letteralmente spaccato a metà, proprio come l'incudine sulla quale, anni prima, Sigfrido aveva saggiato la robustezza della sua spada. E a nulla valsero i cruenti riti che Gothorm, per preservarsi dai colpi nemici, aveva celebrato poco prima, uccidendo un lupo e mangiandone il cuore e bevendone il sangue. Un attimo dopo Gothorm e Sigfrido morirono, trascinati nello stesso destino dai perfidi principi dei Nibelunghi. Intanto sul luogo del delitto era giunta Brunilde che, all'improvviso, afferrò la spada di Sigfrido e si uccise. Fu chiaro "ora che dietro l'odio si celava l'amore: la passione per l'uomo che aveva superato la «prova del fuoco» la travolse. Di fronte all'oro, Hógni e Ounnar non
ebbero pietà nemmeno del piccolo Sigmund che aveva solo tre anni e lo uccisero per eliminare il legittimo crede delle ricchezze di Sigfrido. Così il tesoro maledetto che fu del nano Andvari passò nelle mani dei Nibelunghi: ma fu la loro rovina.

 

Loki Rade A Zero Sif

Dal racconto che segue emergono alcuni tratti del carattere di Loki, come ad esempio la simpatica propensione a tirare brutti tiri a chiunque, quell'arte del dispetto di cui è l'eccelso maestro. Mezzo per scovare sempre nuovi sotterfugi, la furbizia del dio confina, qui, con la viltà, estrema soluzione di fronte ai pericoli incombenti. Tra i motivi presenti nel racconto, traspaiono inoltre alcuni temi - come quello dell'origine e della fabbricazione di aurei tesori - che, posteriormente, arricchiranno la tradizione folklorica di quasi tutto il Nordeuropa.


Preso da quella strana inalattia che è la noia, fonte di tutti i mali e del desiderio di nuove sensazioni, un giorno Loki catturò Sif, l'avvenente compagna di Thor. Le bionde chiome della leggiadra signora delle messi stuzzicarono la fantasia di Loki che, spinto da una ìrrefrenabile smania, iniziò a tagliarle, incurante delle lacrime che solcavano il viso della dea. In breve tempo, lavorando con demoniaco impegno, i bei capelli caddero tutti al suolo, mostrando il triste spettacolo di un cranio femminile rasato a zero. Contemplando la sua opera, l'infame Loki sghignazzava, pago della sua gratuita malvagità. La povera Sif, preda dello sconforto più assoluto, riuscì a liberarsi e, correndo a più non posso, si rifugiò tra le possenti braccia del marito. Il signore del tuono, al quale Sif, singhiozzando, aveva raccontato dell'affronto subito, si precipitò ad Asgardh, deciso a farla finita una volta per tutte con quell'insolente dì Loki. Solo l'abilità oratorìa, quel suo eloquio mielato, salvarono Loki da una morte orribile: promise a Thor che si sarebbe recato tra gli Elfi scuri per farsi confezionare una chioma d'oro del tutto simile, se non più bella, a quella naturale che aveva Sif. E, forse nel tentativo di ingraziarsi le altre divinità promise che avrebbe portato altri strabilianti oggetti, dotati di magiche virtù, che non avrebbero fatto rimpiangere le preziose ciocche da lui recise. Inabissatosi nei tortuosi labirinti che conducevano nelle oscure viscere della terra, Loki giunse nel territorio dei nai da tutti chiamati «figli di Ivaldi» dal nome del loro progenitore. Ben conoscendo le straordinarie capacità degli Elfi, Loki non ebbe difficoltà a farsi forgiare una magnifica parrucca di besilissimi fili d'oro lucente, abbaglianti più del sole. I portentosi artigiani, depositari di arcaici segreti, gli costruirono anche la nave Skidhbiandnir, vascello di inestimabile valore che una volta messo in mare, aveva sempre il vento favorevole, anche se regnava la bonaccia. Inoltre, pronunciando delle formule magiche, si rimpiccioliva al punto da potersi agevolmente mettere in una tasca. Ma la strabiliante sapienza dei nani non conosceva limiti: forgiarono anche Gungnir, una sensazionale lancia capace di affrontare da sola il nemico, inseguendolo fino a colpirlo senza pietà. Ormai Loki aveva ricevuto doni sufficienti a lenire la rabbia degli dèi e poteva tornare nella cittadella divina. Ma, sempre alla ricerca di nuove occasioni di scommessa, entrò nella bottega dei fratelli Brokk ed Eitri, due fabbri. Adoperando il suo usuale tono altezzoso, Loki iniziò a disprezzare il lavoro dei due artigiani, affermando che non sarebbero mai stati capaci di realizzare tre oggetti paragonabili, per bellezza e funzione, a quelli che aveva con sé. I due fratelli accettarono la sfida e si misero al lavoro: Brokk prese una pelle di porco e con cautela, la pose sulla fucina, raccomandando al fratello di soffiare con il mantice fino al suo ritorno, senza mai fermarsi, qualsiasi cosa accadesse. Eitri, seguendo le istruzioni del fratello, manovrava con lena il pesante mantice, mantenendo la brace ardente. All'improvviso entrò nella bottega, annunciata da un fastidioso ronzio, una grossa mosca. L'insetto andò a posarsi proprio sulla mano del nano, disturbando non poco il suo lavoro. Alcuni insinuavano che fu lo stesso Loki, ricorrendo ad uno dei suoi truffaldini travestimenti, a molestare Eitri, tentando così di distoglierlo dal compito assegnatogli da Brokk. Difatti l'insetto punse con forza la mano di Eitri, che però continuò, nonostante il dolore, a soffiare con il mantice. Giunse allora Brokk che, compiaciuto con il fratello per la sua abnegazione, tolse il primo prodotto da esibire nella sfida con il dio: era un magnifico cinghiale, il cui dorso non era ricoperto da normali setole, ma da sottilissimi fili d'oro. Naturalmente il cinghiale fu chiamato Cullinbursti, «setole d'oro». Brokk, non dimenticando che dovevano presentare tre oggetti, si rimise a lavoro. Questa volta, come materiale di fusione, adoperò dei lingotti d'oro massiccio. Eitri riprese il suo posto al mantice e prese a far aria con potenza, mentre Brokk uscì dalla bottega raccomandandogli di non smettere fino al suo ritorno. La solita mosca - insetto nato per innervosire la gente - iniziò a volteggiare sopra la testa dell'artigiano e, seguendo un suo preciso piano di disturbo, lo punse sul collo. Conscio dell'importanza del compito affidatogli, Eitri strinse i denti e, sopportando un dolore ancora più acuto, continuò fino a quando non vide il fratello. Poco dopo arrivò Brokk e, costatato che la mosca non aveva compromesso il lavoro del fratello, estrasse dalla fucina un meraviglioso anello. L'aureo cerchietto aveva lo strano potere di riprodursi ogni nove notti in otto esemplari identici come gocce d'acqua: proprio per questo motivo lo chiamarono Draupnir, «che gocciola». Bisognava fabbricare un altro oggetto, altrettanto portentoso come i primi due. Brokk, che era la «mente», pose sulla fucina del ferro e, ancora una volta, rammentò al fratello - il «braccio» - che tutto sarebbe stato inutile se egli avesse smesso, anche per un solo istante, di soffiare con il mantice fino al suo ritorno. Inutile dire che la mosca, animata sicuramente da qualche potenza demoniaca, ricomparve e, ronzando incessantemente, si avvicinò ad Eitri. L'insetto punse l'indefesso fabbro proprio su una palpebra e, immediatamente, dei rivoli di sangue gli rigarono il volto, impedendogli di vedere ciò che stava facendo. Solo allora, e per un attimo, Eitri tolse una mano dal mantice per cacciar via la mosca. In quell'istante ritornò Brokk e dicendo che tutto stava per essere rovinato irrimediabilmente trasse dalla fucina un martello. A causa dell'incidente il martello aveva un piccolo difetto: il manico era un po' corto. Ma per il resto, che oggetto eccezionale! Una volta scagliato contro un qualsiasi obiettivo, lo raggiungeva infallibilmente, riducendolo in minuscoli frantumi. Come se non bastasse, esaurita la sua missione di distruzione, ritornava nelle mani del lanciatore come un boomerang. Inoltre, con appositi incantesimi, il martello poteva diventare tanto piccolo da essere nascosto in una tasca. Arma onnimaciullante, il martello fu chiamato Mjdlnir ' «che frantuma». I due nani potevano considerarsi, e a ragione, orgogliosi di simili prodigiosi prodotti e, confidando in una sicura vittoria, Brokk si recò nella cittadella divina per confrontarsi con Loki. Il sacro concilio degli Asi, riunitosi per l'occasione, designò Odino, Thor e Freyr arbitri supremi della sfida. Loki mostrò i suoi tesori: donò Gungnir, ad Odino, magnificandone le doti; a Thor consegnò l'aurea parrucca dicendogli che, una volta poggiata sul cranio di Sif, i filamenti si sarebbero radicati come veri capelli, crescendo splendenti sempre più; la nave Skidhbladnir fu consegnata a 'Freyr e anche questa volta Loki descrisse con sapiente aggettivazione le doti nascoste del suo dono. I tre oggetti riscossero l'ammirazione degli dèi che, ammaliati anche dall'eloquenza di Loki, non riuscivano ad immaginare nulla che potesse soltanto eguagliarne il valore. Fu poi la volta dell'operoso nano: porse al padre degli dèi l'anello Draupnir, raccontando la sua eccezionale capacità di autoriproduzione, facendo balenare davanti agli occhi divini lo spettacolo delle montagne d'oro che se ne potevano ricavare, pose Mjdìnir nelle mani di Thor, al quale descrisse il fenomenale potere distruttivo dell'arma, sottolineando che contro di essa nulla avrebbero potuto i giganti; a Freyr regalò il cinghiale dalle setole d'oro, dicendogli che avrebbe potuto cavalcarlo sia in cielo che in terra o sulle onde del mare, anche di notte, perché le sue setole avrebbero illuminato il tragitto, lasciandosi dietro una scia luccicante che i comuni mortali avrebbero scambiato per stelle cadenti. La sacra giuria senza esitazioni decretò la vittoria del fabbro, poiché, dissero, i suoi doni erano preziosi, ma anche utili. Il rnartello, ad esempio, sarebbe stata l'arma migliore per difenderli dall'arroganza dei giganti. Infine, come si era soliti fare in quelle occasioni, condannarono Loki a consegnare la sua testa a Brokk. L'abile architetto di tante truffe, il signore del sotterfugio, vide andare in frantumi tutta la sua perfida sapienza: a nulla, infatti, valsero le sue offerte, formulate ricorrendo a quell'arte della persuasione che più di una volta lo aveva salvato da simili pericoli. Il fabbro fu irremovibile: a nessun costo avrebbe rinunciato alla testa di un simile spaccone. A Loki, «vergogna degli Asi», non restò che ricorrere ad una ignominiosa fuga: calzate magiche scarpe che gli consentivano di correre sull'acqua e attraverso il cielo, il dio iniziò una frenetica corsa e, deludendo sia il nano che gli dèi, sparì. Thor, che non poteva sopportare l'ombra di vigliaccheria piombata sugo dèi, scopri il rifugio di Loki e lo catturò, consegnandolo subito a Brokk. Protetto dal più forte degli Asi, l'artigiano si preparava a staccare la testa dei suo sfidante quando, sottilizzando sul significato letterale delle parole, Loki disse che poteva fare tutto ciò che voleva della sua testa, ma doveva lasciare intatto il collo: avevano scommesso la testa, nient'altro che la testa. Di fronte a tanta sfacciataggine, Brokk non si perse d'animo e, deciso ad umiliarlo fino in fondo, prese un coltello e dello spago e tentò di forare le labbra di Loki: voleva cucirgli la bocca, per impedirgli di pronunziare altre parole di sfida o di disprezzo.

Ma il coltello non tagliava, Il fabbro, recitando una delle sue segrete formule, fece aprire dal nulla la lesina con cui erano soliti, lui ed il fratello, forare le pareti. Questa volta le labbra del dio perdente vennero trafitte con facilità e lo spago potè passre tra i fori e sigillarle. Loki aveva avuto una giusta punizione: si trattava di un supplizzio dolorosissimo per lui, abituato a costruire frasi pompose, compiacendosi al solo loro suono. Purtroppo, poco dopo, Loki riuscì a strappre i pur forti nodi e, ormai libero, potè continuare ad imbastire tranelli avvalendosi del suo eloquio forbito.

 

Pene D'Amor Divino

Episodio che rimanda, nelle sue sequenze, ad un mondo simbolico oscuro, il racconto dell'innamoramento di Freyr ha suscitato il vivo interesse degli studiosi delle istituzioni indoeuropee. Tra i numerosi motivi presenti nel mito è possibile infatti rintracciare alcune delle strutture fondamentali di un'istituzione, il matrimonio, su cui l'intera società nordica fa perno, e che informa, con i suoi codici, complicati nessi sociali.


Un giorno, trasgredendo le sacre regole della gerarchia divìna, Freyr si assise sul trono di Odino e, da quello scanno fatato, poté contemplare ciò che accadeva nei nove mondi. Splendide visioni attirarono la curiosità del dio, immerso nel caleidoscopico turbinio di migliaia di scene diverse provenienti da terre lontane. Ma gli occhi divini furono ammaliati da uno spettacolo di una bellezza incredibile: a settentrione, nei territori innevati abitati dai giganti, scorse una fanciulla che si recava in un podere. Attirato dalla purezza dei lineamenti della gigantessa, Freyr seguì con crescente interesse i passi della donna, spiandone i delicati movimenti. E quando ella pose la candida mano sulla maniglia d'una porta, si diffuse tutt'intorno una luce soave, bianchissima, che travalicò i confini dello Jotunheim, infondendo una solare chiarezza nei mari e nei cieli di tutto l'universo. Ma, subito dopo, la fanciulla sparì dietro l'uscio e quell'incanto celestiale, quell'atmosfera di sogno creata dalla sola sua presenza, si dissolse nel nulla, lasciando Freyr nella disperazione. li signore dell'abbondanza, l'amante sospirato da tanti cuori femminili, fu rapito da quelle immagini di splendore ed in breve tempo divenne preda della più esaltante e dolorosa passione amorosa. Forse fu quella la punizione per il suo peccato di presunzione. Freyr, infatti, ritornato nei suoi possedimenti, fu preso dallo sconforto che colpisce gli innamorati in pena. Egli custodiva gelosamente il suo amore e non aveva voglia di bere, di mangiare, di dormire e di parlare: i suoi gesti mimavano l'apatica indifferenza dei cadaveri. Pallido e srnunto, il dio sedeva in un angolo, corrucciato e triste, rimanendo immobile per ore, con lo sguardo perennemente rivolto a nord, contemplando figure a lui solo visibili. Njdrdhr, vedendo il figlio deperire giorno per giorno, chiamò Skirnir, l'amico e servitore fedele di Freyr, pregandolo di parlare con il giovane e di scoprire l'origine dei suoi tormenti interiori. Freyr, rivedendo il compagno di tante avventure, si senti risollevato e con voce tremula gli raccontò del suo amore: gli parlò della fanciulla come della donna che aveva sempre inseguito nei suoi sogni, senza però riuscire a raggiungerla nella vita. Ora, proseguì, il sole poteva sorgere per altri mille giorni: per lui sarebbe stata sempre notte fonda se non avesse potuto abbracciare la leggiadra gigantessa. Skirnir, da amico sincero, rincuorò Freyr e lo spinse a raccontargli i particolari della scena a cui aveva assistito. Apprese così che si trattava della figlia del gigante Gymir, quella Gerdh la cui bellezza era già stata magnificata da molti. Con l'animo sollevato dalla confessione, Freyr chiese al suo amico di recarsi nello Jotunheim, nei territori di Gymir, per chiedere la mano della ragazza, offrendole in cambio qualsiasi cosa desiderasse. Ma il fedele Skirnir, immaginando le insidie celate in una simile missione, chiese al dio di poter avere un cavallo all'altezza della situazione, capace di saltare intrepido le fiamme, sprezzante d'ogni pericolo. Inoltre pretese la spada di Freyr, arma invincibile che, in virtù delle magiche rune incise sul suo acciaio lucente, poteva affrontare da sola la.furia di decine di giganti. Intravvedendo, finalmente, uno spiraglio di speranza nella tetraggine che lo avvolgeva ormai da giorni, Freyr acconsenti volentieri alle richieste dell'amico e lo pregò di affrettarsi a compiere la sua missione. Alcuni narravano che, non appena saputo dei desideri di Freyr, Gerdh accettò la lusìnghiera proposta di matrimonio senza alcuna esitazione. Ma gli antichi nordici raccontavano un'altra versione: ci vollero tutta l'astuzia ed il valore di Skirnir per superare gli ostacoli posti sulla strada del matrimonio del suo signore con la gigantessa. Per giorni e notti intere cavalcò il fedele servitore, attraversando terre sconosciute, prima di giungere esausto nei possedimenti di Gymir. La dimora del gigante era sorvegliata da cani feroci, bestie enormi che digrignavano le fauci mostrando minacciosamente le zanne ad ogni intruso. Tuttavia Skirnir, facendo uso del suo magico armamentario, riuscì ad aggirare i mostruosi animali. Gerdh, attirata dall'abbaiare dei cani, comparve sulla porta ed invitò lo sconosciuto a bere una coppa di idromele. Sorpresa dal coraggio del cavaliere venuto da chissà dove, Gerdh gli chiese se, per caso, non era un dio, uno degli Asi o dei Vani, oppure se era un Elfo chiaro. Il messaggero divino le svelò subito le ragioni del suo viaggio e, seguendo tradizioni ataviche, le offrì undici pomi d'oro, prezioso pegno d'amore per riscattare la sua libertà. Ma la fanciulla rifiutò sdegnata l'aureo dono, respingendo la proposta di matrimonio: mai e poi mai, disse, si sarebbe unita ad uno degli Asi, rinnegando così le sue origini. Abile cerimoniere, Skirnir rinnovò l'offerta, aggiungendo, quale ulteriore inestimabile dono, Draupnir, il magico anello di Odino. Ma, ancora più sprezzante, Gerdh rigettò l'offerta: aveva abbastanza oro nei suoi forzieri e poteva ornarsi di gioielli di incomparabile valore e bellezza, degni di una regina dei giganti. Abbandonando la via della gentilezza, una via lastricata di preziosi doni, Skirnìr mostrò, allora, la lama affilata della sua spada e, con tono minaccioso, fece capire a Gerdh che l'onta dei suo rifiuto poteva essere lavata solo con il suo sangue. Per nulla intimorita, Gerdh magnificò le doti di guerriero invincibile per le quali suo padre era famoso in tutto lo Jotunheim: Gymir non si sarebbe certo tirato indietro ed avrebbe affrontato chiunque avesse tentato di torcerle anche un solo capello. Tenacemente fedele alla sua missione, Skirnir decise di ricorrere alla rnagia delle rune, l'arma più potente, l'unica in grado di piegare qualsiasi spirito ribelle. Mostrandole un ramo umido, minacciò di votarla magicamente alla sventura, se non avesse cambiato opinione, e iniziò a prospettarle le pene che avrebbe patito: sarebbe stata esiliata negli oscuri territori di Hel, da dove sarebbe uscita trasfigurata con le orrende sembianze di un mostro. Chiunque allora si sarebbe voltato verso di lei che, senza poter opporre alcuna resistenza, avrebbe soddisfatto le immonde voglie di tutti i giganti. Il tormento e l'angoscia, insieme all'ansia ed alla frenesia, sarebbero stati gli unici sentimenti che avrebbe provato quando, piangendo fiumi di calde lacrime, avrebbe maledetto la sua sfrontatezza. Ed infine, invece del bellissimo Freyr, avrebbe sposato un gigante con tre teste che le avrebbe offerto, al posto dei sacro idromele divino, del puzzolente piscio di capra servito in luride coppe. Pronunziato questo programma di allucinanti patimenti, Skirnir afferrò il ramo e, sotto lo sguardo attonito della fanciulla, vi incise le tre rune che simbolizzavano la lascivia, la follia amorosa e la frenesia, consegnando all'insondabile mistero dell'alfabeto odinico il destino di Gerdh. Ben conoscendo la potenza di quel sortilegio e le sue nefaste conseguenze, la gigantessa pronunciò la formula di rito, quel «salute a te» che annunziava nell'antica cultura nordica l'assenso alle nozze, pregando il niessaggero di Freyr di cancellare le rune e di annullare il malefizio. Prima di ripartire, Skirnir chiese alla donna di fissare la data delle nozze. Gerdh gli parlò di una radura in mezzo al boschetto chiamato Barri: lì, tra nove giorni, avrebbe concesso il suo amore al figlio di Njórdhr. Montato in groppa al suo cavallo, ormai se lo era meritato, il giovane galoppò veloce verso Asgardh, felice d'aver dissolto le pene d'amore del suo signore ed amico. Naturalmente Freyr lo attendeva sulla soglia della sua dimora e, senza attendere che scendesse da cavallo, gli chiese notizie. Conosciuta la data ed il luogo del sospirato convegno amoroso, donò la sua spada al fido Skirnir. Ma poco dopo si udì il canto angosciato di Freyr che esprimeva la sua impazienza: come avrebbe potuto attendere nove notti ancora? Come poteva sopravvivere al desiderio struggente? Ben presto, la foga giovanile lasciò il posto alla ragione e, trascorso il tempo stabilito, Frey coronò il suo sogno d'amore ed assaporò le delizie femminili di Gerdh.

 

Singolar Tenzone Contro Hrungnir

I singolari particolari che arricchiscono questo ennesimo episodio delle gigantomachie di Thor (si vedano, ad esempio, il cuore tricornuto del gigante e la costruzione di un colosso d'argilla), hanno dato luogo ad elaborate interpretazioni. Probabilmente, rimanendo nel campo delle ipotesi, nelle trame narrative si cela anche la descrizione di una mitica iniziazione di grado superiore, durante la quale Thor - guerriero prototipico - deve dimostrare il suo coraggio in quello che è il suo primo duello «ufficiate». Accadde che un giorno Odino si trovasse a passare nella terra dei giganti. In groppa a Sleipnir, il magnifico destriero ottipede, il padre degli dèi cavalcava fieramente nei cieli dello Jdtunheim. L'elmo d'oro massiccio che rifletteva i raggi del sole sulla terra non poteva certo passare inosservato: tutti i giganti guardavano, estasiati e sorpresi, quell'insolito spettacolo, chiedendosi chi poteva mai essere il misterioso cavaliere celeste. Hrungnir, forse un po' invidioso, saltò in groppa a Gullfaxi, uno stallone dai muscolì guizzanti e - particolare che accresceva la sua bellezza - dalla criniera fatta di lucentissimi aurei filamenti. Il gigante, sicuro di sé, si avvicinò al divino cavaliere e, con tono sprezzante, gli disse che si, certo, aveva un bel cavallo, ma non poteva assolutamente competere con il suo. Odino, offeso da tanta spavalderia, per tutta risposta spronò Sleipnir e, veloce come il fulmine, scattò in avanti, sfidandolo. Per nulla intimorito, ignaro del magico trotto di Sieipnir, Hrungnir lo inseguì, lanciandosi in una corsa spericolata tra monti e valli sconosciute. Ma sebbene Gulìfaxi galoppasse più veloce che mai, non riusciva a raggiungere il grigio destriero: le sue otto zampe gli davano uno slancio incredibile, muovendosi freneticamente senza il minimo sforzo. Cosi, in brevissimo tempo, i due cavalieri furono davanti ai cancelli di Asgardh e, senza nemmeno accorgersene, Odino trascinò nella cittadella divina il gigante ed il suo cavallo. Ossequiosi alle sacre regole dell'ospitalità, gli dèi offrirono da bere a Hrungnir. E, considerata la gigantesca corporatura dell'ospite, lo servirono con i possenti calici da cui era solito bere Thor. Il gigante, che era rimasto senza fiato a causa dell'eccezionale sgroppata, si scolò parecchi tini di idromele, la preziosa bevanda divina. Ma non era abituato ad un simile nettare: ormai del tutto sbronzo, iniziò a fare il gradasso; disse che avrebbe preso la Valhalla e la avrebbe portata con sé nella terra dei giganti; avrebbe sprofondato nelle viscere della terra l'intera Asgardh e disperso tutti gli dèi tranne Freya e Sif: le bellissime dee avrebbero allietato i suoi giorni. Allora, irritati dall'ingiurioso sproloquio del gigante, gli dèi misero da parte ogni considerazione e, stufi delle sue smargiassate, chiamarono Thor, il loro forzuto difensore. Annunciato da fulmini e boati, il rosso signore del tuono arrivò in un baleno e, indispettito per la presenza di uno dei suoi abituali nemici in quel sacro luogo, chiese chi mai gli avesse dato il permesso di entrare. Fu Hrungnir stesso a rispondergli, dicendo che la colpa era del sommo Odino. Ma Thor, stringendo il suo martello e lanciandogli occhiate di fuoco, non volle sentire ragioni: di lì a poco gli avrebbe frantumato il cranio - disse - facendolo pentire della sua arroganza. Hrungnir, puntando sul senso dell'onore di Thor, si lamentò di non avere con sé alcuna arma: sarebbe stata una vigliaccata, un'azione non degna di un dio, approfittare in quel modo di un gigante disarmato; e senza mai abbandonare il suo tono deciso, lo sfidò a misurarsi con lui in un regolare duello. Nonostante che avesse combattuto ed ucciso tanti giganti, era la prima volta che Thor veniva sfidato a «singolar tenzone», con tutti i crismi della cavalleria. Naturalmente accettò, stabilendo il luogo e la data della disfida. Giunto nella sua terra, Hrungnir raccontò le sue avventure e del duello: immediatamente i giganti, che conoscevano la potenza delle magiche arnù di Thor, pensarono che la forza, seppur colossale, di Hrungnir non sarebbe bastata. E la posta in gioco era altissima: se Thor avesse vinto li avrebbe certamente uccisi tutti. Così, trascinate delle montagne di fango sul luogo dei duello, iniziarono a plasmare un colosso d'argilla, un gigantesco manichino da affiancare a Hrungnir nella solenne sfida. Poco più tardi si vide una mastodontica forma uínana, che proiettava la sua ombra per metri e metri. Al fangoso gigante mancava però la vita e perciò, dopo aver scavato una fossa nel suo torace, vi inserirono il cuore ancora palpitante di una giumenta: il più grosso che avevano trovato.

Del resto, si dice che Hrungnir possedesse altre qualità eccezionali: il suo cuore, ad esempio, era di dura pietra, con tre punte ricurve. Inoltre la sua testa era simile ad un grosso macigno, tanto che alcuni, esagerando, affermavano che il gigante altro non era che l'incarnazione di una montagna di granito, capace di muoversi e di pensare in virtù di qualche incantesimo. Di sicuro Urungnir aveva, a mo' di scudo, una roccia pesantissima; nefl'altra mano, come unica arma d'offesa, aveva una pietra molaia, una di quelle durissime selei usate per affilare le lame dei coltelli. E venne il giorno stabilito. Il dio, sul suo carro trainato dai capri, si mise in cammino, accompagnato dal giovane Thialfi, suo fedele servitore. Al passaggio del carro divino le montagne si scuotevano, spaccandosi e precipitando in immense voragini; tremende scariche di grandine tormentavano le colture; il cielo rosseggiava, attraversato da saette incandescenti. La collera divina si manifestava con tutti i suoi attributi atmosferici a mano a mano che si avvicinava al teatro dello scontro. Ormai Thor era stato avvistato dai due giganti che, ritti e maestosi, lo aspettavano. E certo la visione di tutti quei tristi presagi di morte e di distruzione dovette impressionare non poco i due sfidanti. Si raccontava, a questo proposito, che il colosso d'argilla, terrorizzato, non seppe controllare le sue fangose visceri e, con sintomatico abbandono, se la fece addosso, inondando di lercia urina il terreno circostante. Urungnir, però, non si scoraggiò: fiero e minaccioso, continuava a reggere saldamente l'enorme scudo granitico, mentre faceva volteggiare la micidiale selce, pronto a colpire. In quell'occasione Thialfi si rivelò abile stratega: si avvicinò a Hrungnir e, fingendosi una spia, gli disse che, contrariamente a quanto era solito fare, Thor lo avrebbe attaccato dal basso, spuntando inaspettatamente da sotto i suoi piedi. Allora l'ingenuo gigante prese il suo scudo e, dietro suggerimento del giovane, lo piazzò sotto i piedi. Un istante dopo, Hrungnir senti il fragore del cielo tuonante e, lambito da fiamme altissime, vide il carro di Thor sfrecciare fulmineo contro di lui. Immediatamente il gigante gli lanciò contro l'aguzzo proiettile roccioso con tutta la sua forza. Ma il martello divino, il portentoso Mjólnir, già volava contro il cranio di Hrungnir: le due armi si scontrarono per l'aria, a metà corsa. La scuce fu spaccata in una miriade di frammenti che caddero al suolo: da quelle schegge, dicevano gli antichi nordici, si ricavava la materia prima per le pietre molaie. Ma uno di quei frammenti andò a conficcarsi nella testa di Thor che, privo di conoscenza, si abbatté al suolo. Intanto Mjdlnir, dotato dello stupefacente potere di colpire sempre il suo bersaglio, aveva raggiunto il cranio di Urungnir, maciullandolo orribilmente, e devastato il suo corpo, riducendolo in pezzi: una gamba volò via, cadendo proprio sul collo del dio accasciato lì vicino. Anche Thialfi si era dato da fare e, sebbene non si trattasse di un prode avversario, aveva ridotto in una informe massa di fango l'alleato di argilla di Hrungnir. Lo scontro era cessato, ribadendo ancora una volta la superiorità di Thor e la supremazia divina. Ma il signore del tuono giaceva immobile sotto il peso della coscia del gigante, tormentato, per di più, dal lancinante dolore causato dalla scheggia di pietra molaia. Thialfí tentò disperatamente di liberare il suo padrone, ma i suoi sforzi nulla poterono contro un simile peso. Accorsero allora tutti gli dèi e, formando una composita squadra, tentarono di smuovere l'ormai putrida e marcia gamba. Ma anch'essi fallirono. Tra l'incredulità generale, si avvicinò il piccolo Magni, ancora esitante sulle sue tenere gambette - era nato solo da tre giorni - e, senza sforzo apparente, liberò il genitore. Grande fu la gioia di Thor che, fiero del suo ultimogenito, frutto di un sacrilego coito con la gigantessa Jarnsaxa, volle premiarlo adeguatamente: catturò lo splendido Gullfaxi e glielo regalò. Alcuni maligni dicevano che in quell'occasione Odino si adirò molto con il figlio, perché avrebbe voluto per sé quello stallone che aveva sfidato il suo Sleipnir. Ma le sofferenze di Thor non erano finite: rimaneva la scheggia conficcata nel cranio. A quei tempi viveva, da qualche parte in quel mondo primordiale, una vecchia megera di nome Groa, moglie di Aurvandili, detto il «coraggioso». La donna era famosa perché conosceva parecchi incantesimi e misteriose formule. Il dio si recò dalla maga per essere liberato da quel terribile ed anomalo «mal di testa». Groa prese tra le sue mani la testa di Thor ed iniziò ad intonare dei canti magici: al suono di quelle litanie il dolore si allontanò e la scheggia prese a uscire dal cranio. Entusiasta per la fenomenale guarigione, il dio non aspettò che la fattucchiera gli annunciasse la fine del rituale e, pensando di farle cosa gradita, le raccontò che aveva visto suo marito. Groa, che non vedeva il suo sposo da anni e che, addirittura, lo riteneva morto, interruppe di colpo il trattamento, esortando Thor a raccontarle tutto. E il dio le disse che, durante uno dei suoi viaggi nello Jótunheim, lo aveva trasportato in una cesta, aiutandolo a guadare un fiume dalle impetuose correnti gelide. Ma l'ardimentoso consorte della maga aveva voluto sporgere la mano fuori dal cesto, nonostante che Thor lo avesse avvertito di non farlo perché la temperatura era davvero bassissima. Difatti il pollice di Aurvandili si congelò e il dio, scongiurando l'imminente cancrena, glielo aveva tranciato. Forse per far piacere alla sua guaritrice, Thor le indicò una stella - alcuni dicevano che si trattasse delle cosiddetta «stella mattutina» - dicendo che era il pollice del marito, da lui scagliato nel firmamento per esprimerle la sua gratitudine. Dopo un po', poiché il rituale terapeutico era stato interrotto, la scheggia ricominciò ad affliggere Thor. Non c'era più rimedio: una volta interrotta la sequenza magica, non la si poteva riprendere mai più. Tuttavia, disse la fattucchiera, solo quando qualcuno sulla terra avrebbe lanciato in aria una pietra molaia, il frammento conficcato nella testa divina si sarebbe mosso, arrecandogli tremende sofferenze. là questa la ragione per cui, nell'antica cultura nordica, le pietre per affilare erano circondate da un alone di sacro rispetto e non era consentito giocare con esse.
 

Thor Contro Geirrodhr

Nei suoi avventurosi viaggi nelle terre dei giganti, Thor è spesso accompagnato da Loki, il più astuto e malvagio degli dèi. Anche questa avventura ha un suo antecedente che vede come protagonista il perfido Loki, finito nelle grinfie di un gigante a causa della sua sfrontatezza. Dopo aver a lungo insistito ed adoperando tutto il suo doppio eloquio, Loki era riuscito a realizzare uno dei suoi sogni: aveva convinto la moglie di Odino, Frigg, a prestargli il suo magico manto di penne di falco. Ora, travestito da improbabile rapace, poteva sorvolare senza troppi pericoli le terre dei giganti ed esplorare i loro possedimenti. Così, inseguendo le sue recondite curiosità, il dio pennuto si era da poco librato in volo ed assaporava l'ebbrezza di quella celestiale nuova dimensione, quando scorse il palazzo di Geirrddhr, il potente re dei giganti. Sentendosi sufficientemente protetto dal suo travestimento, Loki si affacciò ad una finestra del palazzo reale e, attratto dallo spettacolo fastoso della corte, penetrò nell'immenso salone. Pensava che, volando in alto, forse non si sarebbero nemmeno accorti di lui. Ma quell'insolito e goffo uccellaccio non poteva certo passare inosservato: fu proprio Geirrddhr a scorgerlo per primo, ordinandone immediatamente la cattura. Allora un servitore, un vero e proprio colosso, iniziò a rincorrere lo strano volatile. Ma Loki, signore assoluto del dispetto, si divertiva a sfuggirgli, volando da un punto all'altro della sconfinata sala, facendo disperare il suo inseguitore. Alla fine però il gigante riuscì a bloccare con una presa micidiale i piedi del dio che, ormai, non sghignazzava più. Immobilizzato e reso del tutto inoffensivo, il misterioso intruso fu condotto al cospetto di Geirrddhr. Il gigantesco sovrano squadrò dall'alto verso il basso l'impacciato volatile e, in un attimo, comprese che si trattava di un sortilegio, un incantesimo che aveva dotato di ali quell'essere venuto da chissà dove. Il re, minaccioso e fiero, iniziò ad interrogare il prigioniero, ma Loki rifiutava di rispondergli e, con somma sfacciataggine, si divertiva a prenderlo in giro. Irritato ed offeso, Geirrddhr lo fece rinchiudere in una cassa: senza un briciolo di commiserazione, lo lasciò inarcire nell'angusta prigione per tre mesi senza alcun cibo. Dopo la spossante prigionia ed il digiuno forzato Loki perse gran parte della sua baldanza, ma non la sua astuzia; rivelò al re la sua vera identità e, tendendogli una trappola a cui aveva pensato a lungo, gli promise di condurre nei suoi territori, pronto ad essere catturato, il principale nemico dei giganti, Thor. Geirrodhr, pensando che gli sarebbe stato facile liquidare Thor se questi avesse messo piede nella sua regione, fece liberare Loki. Intanto il maestoso signore dei tuono, chiamato da Loki, si era già messo in cammino ed aveva varcato da un pezzo le frontiere dello Jótunheim. Stanco del cammino, aveva chiesto ed ottenuto ospitalità da una sua amica, la gigantessa Gridhr, madre di Vidhar, detto il «silenzioso». La gigantessa, che nutriva una profonda simpatia per il dio dalle chiome fulve, mise in guardia il suo ospite e gli svelò i progetti del re. Inoltre, spinta da una naturale antipatia nei confronti dì Geirrbdhr, la padrona di casa gli donò dei portentosi oggetti: una cintura magica capace di raddoppiare la forza muscolare di chi l'indossava; un paio di guanti di ferro, ma morbidi e comodi da calzare; infine un bastone durissimo, il famoso Gridharvoir, il «bastone di Gridhr». L'indomani, forte delle sue nuove armi, Thor si avviò verso la reggia di Geirrddhr. Lungo la via si trovò a dover guadare il fiume Vimur, che segnava il confine con le terre del gigante. Sostenendosi su Oridhavdlr, ben piantato nel letto del fiume, Thor entrò nelle acque gelide, sfidando le insidiose correnti. Ma giunto proprio al centro del fiume, il livello dell'acqua sali paurosamente, minacciando di travolgere il dio. Volgendosi a monte per scoprire la causa del repentino aumento di pressione, Thor scorse Gjalp, una delle figlie del re dei giganti, che sedeva a cavalcioni sul corso d'acqua. Qualcuno, forse esagerando, raccontava che la colossale fanciulla stava orinando e qualcun altro aggiungeva che, colmo delle nefandezze, versava il suo copioso flusso mestruale nelle acque limacciose. In ogni caso, l'ira di Thor non tardò a manifestarsi in tutta la sua potenza: il dio afferrò un enorme macigno dal greto del fiume e urlando irripetibili imprecazioni lo scagliò contro la giovane maleducata. Poi, per salvarsi dalla massa d'acqua che stava per sommergerlo, si aggrappò ai rami di un sorbo che sporgevano dalla riva e guadagnò rapidamente la sponda opposta, mettendosi in salvo. E proprio per questo motivo che il sorbo, provvidenziale salvatore dei dio, era oggetto di particolare venerazione da parte dei devoti di Thor. Ed inoltre, ricordando anch'essi tale episodio, gli antichi poeti nordici chiamavano l'albero il «salvatore di Thor». Superata la prima imboscata tesagli da Geirrddhr, il dio del tuono giunse alla corte del gigante. A quanto sembra, Thor non fu accolto con gli onori dovuti al suo rango: come dimora notturna gli offrirono un misero ovile, dove, sicuramente, lo attendevano altri tranelli. Ma, accettando la tacita sfida, il dio si recò nel poco divino alloggio. Qui, come indegno letto, trovò solo uno scomodo e duro seggio sul quale, ormai sempre più sospettoso, si accasciò esausto. Dopo un po', come per sortilegio, il pesante sedile iniziò ad alzarsi velocemente: sicuramente si trattava di un vile stratagemma per schiacciare contro il soffitto l'ignaro ospite. Thor, però, subito si rese conto della macabra macchinazione e, cingendosi con la portentosa cintura donatagli da Gridhr, puntò il bastone contro le travi del soffitto, riuscendo così a bloccare la micidiale ascensione. Quando ripiombò di colpo con tutto il suo peso sul seggio, Thor udì un tremendo boato e urla agghiaccianti: sotto il sedile si erano nascoste le figlie di Geirródhr, Gjalp e Greip, facendo da gigantesche leve in carne ed ossa a quefl'orrendo meccanismo di morte da loro architettato. Ma il contraccolpo provocato dalla repentina caduta di Thor aveva sfracellato le schiene delle scellerate attentatrici. li giorno dopo, come se nulla fosse accaduto, Thor venne invitato dal re a visitare il suo palazzo. Nell'immensa sala del trono ardevano enormi bracieri su cui erano poste pesanti sbarre di ferro, incandescenti attrezzi destinati ad esibizioni di coraggio e potenza da parte di intrepidi guerrieri. Thor, vedendo quei fuochi, pensò che il gigante aveva abbandonato i vili trabocchetti ed intendeva sfidarlo in qualche gara o invitarlo a battersi con qualcuno dei suoi campioni. Abbandonata per un attimo la sua diffidenza, il «dio rosso» si avvicinò al trono. All'improvviso, dando ancora una volta prova della sua viltà, Geirródhr scagliò con violenza contro il suo ospite una spessa sbarra incandescente, tentando di coglierlo di sorpresa. Ma i riflessi di Thor erano scattanti come saette: le sue mani, avvolte nei guanti di ferro, afferrarono il pesante proiettile, bloccandolo in una presa decisa. Il gigante, ormai preda del panico, sradicò dalle fondamenta del palazzo una colonna di ferro e la lanciò contro il dio: anche questa volta Thor parò il colpo e, ormai stanco e disgustato, afferrò con entrambe le mani la massiccia colonna e la scagliò nell'angolo dove si era nascosto il ì,e. Non si era mai udito, in quelle terre, un boato cosi terrificante: l'immenso palazzo crollò, seppellendo sotto un mare di calcinacci l'imprudente re che aveva osato sfidare il più forte degli Asi.

 

Thor Contro Il Serpe Del Mondo

Giovane baldanzoso ed impaziente di sfogare la sua vitalità, Thor non riusciva mai a stare fermo. Sempre in giro per il mondo, ricercava continuamente occasioni per mostrare la sua forza ed affrontare i suoi nemici principali, personificazioni del male di questa terra: i giganti ed i mostri. Questo lo spirito che lo animava quando, alle prime luci dell'alba, era partito senza il suo seguito con il fermo proposito di catturare il serpe del mondo, stanandolo dagli abissi marini. Dopo aver marciato tutto il giorno, il dio giunse, stanco ed affamato, presso la dimora del gigante Hymir: chiese ed ottenne ospitalità per la notte. All'alba, quando era ancora a letto, Thor sentì dei rumori: il gigante, come era solito fare, si preparava per andare a pescare. L'intrepido giovane dalla barba rossa - tale l'aspetto di Thor - si avvicinò a Hymir e, con tono deciso, si offrì di accompagnarlo. Un poco infastidito dall'ardire dell'intraprendente giovanotto, Hymir gli rispose che era ancora acerbo per simili faccende «da grandi»: senza dubbio, una volta in alto mare, avrebbe avuto paura delle montagne d'acqua rovesciate dall'occano durante la burrasca. Il potente signore del tuono, irritato da tanta arroganza, a stento represse la sua collera rinunciando a mettere mano al suo martello, e pensando al suo obiettivo principale, ribatté che non sarebbe stato certamente lui a chiedere di tornare a terra. Il gigante, sorpreso e divertito da tanta giovanile spavalderia, accettò di portarlo con sé, dicendogli che i marosi avrebbero ridimensionato la sua irruenza. Allora il novello pescatore, volendo attrezzarsi nel modo migliore, chiese al gigante quale era l'esca più adatta. Hymir, prendendolo bonariamente in giro, gli indicò una mandria di buoi che stava pascolando li vicino. Ma Thor non si perse d'animo e supponendo che l'esca migliore fosse una testa di bue, decapitò l'esemplare più grande e bello, un bue famoso con il nome Himinhr-jodhr, «nato dal cielo». Con il macabro trofeo ancora sanguinante sotto il braccio, Thor si recò al porto, dove il gigante lo aspettava a bordo della sua barca. Le braccia possenti di Thor spinsero presto l'imbarcazione al largo e, giunti sul tratto di mare dove era solito pescare le sogliole, Hymir gli ordinò di tirare i remi in barca. Ma il giovane rifiutò: erano ancora troppo vicini alla costa, disse; e remando con rinnovata lena condusse l'imbarcazione dove mai si erano avventurati giganti o uomini. Intanto Hymir, pensando anche alla propria pelle, mise in guardia il barbuto: da quelle parti potevano incontrare il serpe del mondo e morire orrendamente stritolati tra le sue spire. Ma Thor non volle sentire ragio, ni e, come un forsennato, remò fino a quando non ebbe più fiato e gettò l'ancora. Le mani nodose abituate a stringere Mjòlnir, tenevano ora, ben salda, una lunghissima canna, robusta e flessibile, alla cui estremità pendeva un amo massiccio. Thor prese dal fondo della barca la testa bovina e, sotto lo sguardo raccapricciato di Hymir, la conficcò sulla punta affilata dell'amo. Poi con un fenomenale lancio gettò l'esca sanguinoienta nelle profondità occaniche. Attratto dal sangue ed accettando la sfida che quell'insolita esca rappresentava, il serpe dei mondo, dopo un po', abboccò all'amo. E mancò poco che il primo strattone della bestia arpionata non trascinasse nelle acque gelide il divino pescatore. Tutt'intorno l'azzurro del mare era sparito lasciando il posto ad una spuma incolore emersa dà mostro ferito che si dimenava furiosamente, alzando altissime ondate. Ma, pur scorticandosi i polsi per non mollare la presa, Thor riusci a tirare a bordo il mostruoso serpente. Hymir, che aveva assistito terrorizzato a quella spaventosa scena, subendo impotente le gigantesche ondate pregne del malefico secreto del serpe, tagliò la lenza: ormai era preda del panico più assoluto. Prima che il mostro si inabissasse, Thor riuscì ad afferrare il suo martello e a scagliarglielo sulla testa. Ma fu inutile: il rettile scomparve tra i fiutti. Thor, pieno di rabbia, vedendo andare in fumo tutti i suoi sforzi, si scagliò contro il gigante che, con il suo vile gesto, gli aveva impedito di raggiungere il suo scopo: lo colpì sdegnosamente con un pugno, proprio su un orecchio. La potenza del colpo di Thor fu tale che si vide la testa dei gigante staccarsi dal collo e volare fuori dall'imbarcazione, divenendo preda di pesci e mostri marini. Ma la sfida con il serpe del mondo era solo stata rimandata.

 

Thor Senza Martello

Narrazione sapidamente burlesca., con delle punte grottesche esitaranti, il racconto che segue presenta l'altra faccia di Thor. Gigante burbero e violento, il signore del tuono è talvolta un personaggio bonario e bonaccione, fino ad assumere i contorni di una vera e propria figura comica. Tuttavia, anche in questo caso, complessi e stratificati appaiono i piani simbolici collegabili ad altre lontane tradizioni (il motivo del travestimento femminile del dio, ad esempio). Quella mattina Thor era nervosissimo: si era appena svegliato e non trovava più il suo martello, il prodigioso Mjóinir. Il sangue, simile ai frutti tempestosi di un fiume in piena, scorreva impetuoso nelle sue vene: tremende vampate gli salivano alla testa, rosseggiando ancor di più la fulva chioma. Preda di una rabbia smisurata, furibondo come non mai, Thor tormentava con le possenti mani nodose la sua barba, scuotendola ed attorcigliandola senza sosta. I suoi passi rintronavano in tutta Asgardh causando spaventosi terremoti che, terribile eco dell'ira divina, scuotevano anche la terra. Infine, con un urlo bestiale, sonora propaggine della sua disperazione, Thor chiamò Loki, il signore d'ogni astuzia, l'unico che poteva aiutarlo a scoprire l'autore del sacrilego furto. Esperto negli inganni e conoscitore profondo della malvagità, Loki capi subito che il colpevole era da ricercarsi nello Jótunheim, la terra dei giganti. Senza perdere un attimo i due si recarono dalla bellissima Freya per chiederle il suo manto fatato, il prezioso mantello di piume di falco: indossando quell'abito straordinario, Loki avrebbe potuto alzarsi in volo e, sfrecciando alto nei cieli come un potente rapace, giungere più rapidamente che mai nelle regioni dei giganti, indagare e scoprire il ladro. Freya, ben comprendendo l'importanza di Mjólnir, strenuo difensore della sicurezza degli dèi e degli uomini, prestò volentieri il suo manto. Indossatolo, Loki, spiccò il volo e, dopo un po', già sorvolava i territori nemici. Su un colle, intento a pavoneggiarsi con i suoi cani, leggiadre bestie con guinzagli.d'oro, era seduto Thrym, «rumoroso», un re molto potente. Intuendo la missione dell'alato investigatore, Thrym, con malcelata ironia, chiese a Loki se tutto andasse bene lassù tra gli dèi. L'astuto inviato divino capì immediatamente che aveva davanti a sé il colpevole e rompendo gli indugi, gli raccontò dell'ira di Thor e, tentando di spaventarlo, dei suoi propositi di vendetta. Ma il gigante, accarezzando con sussiego le criniere di alcuni suoi cavalli, gli confessò di aver sotterrato il sacro martello nelle profondità della terra, in un luogo a lui solo noto. Thrym, sentendosi al sicuro, aggiunse che mai gli dèi lo avrebbero riavuto se non quando gli avessero concesso come sposa l'affascinante signora d'ogni beltà: Freya. La missione di Loki era terminata: il dio pennuto volò velocemente verso Asgardh, portando le tristi notizie. Il primo ad avvistarlo, quando ancora non era atterrato, fu proprio l'affranto Thor che, impaziente di conoscere l'esito della missione, si fece gridare ogni cosa dall'alto. Subito dopo, insieme a Loki, Thor si recò da Freya per implorarla di accettare l'offerta di matrimonio. Ma la dea, indignatissima, rifiutò: come avevano potuto solo pensare che lei, la più avvenente delle dee, avrebbe potuto sposare un gigante? Freya era davvero fuori di sé, si agitava nervosamente, indispettita per l'affronto subito e, coinvolta anch'essa dalla foga motoria divina, persino la collana Brisingamen, lo splendido gioiello che ornava il collo della dea, sobbalzò e si ruppe. La bellissima Freya non avrebbe mai accettato: bisognava convocare l'assemblea divina ed escogitare un piano per recuperare Mjólnir. Il sacro concilio si riunì: il saggio Heimdailr, il più chiaro tra gli Asi, propose che Thor, travestito da Freya, si recasse tra i giganti e, sfruttando l'opportunità offertagli dal travestimento, riprendesse il maltolto. li signore del tuono si dimostrò poco felice della proposta; temeva lo scherno: lui, il possente Thor vestito da femmina! Ma Loki, che con la sua somma conoscenza di ogni tranello aveva capito come quello fosse l'unico modo per riavere il martello, gli consigliò di accettare: per convincerlo, si offrì di accompagnarlo, vestendosi anch'egli da donna, facendogli da «damigella». Dopo lunghe discussioni Thor, sacrificando la sua reputazione al bene comune, accettò la proposta di Heimdaììr. Si vide allora lo spettacolo davvero inconsueto di un Thor graziosamente agghindato con vestimenti femminili: una lunga tunica, finemente drappeggiata sul suo corpo rnuscoloso, gli giungeva fino alle ginocchia, occultando l'irta peluria rossiccia che adornava le sue poco femminili gambe. Ai fianchi pendevano le chiavi di casa, tintinnante emblema delle virtù muliebri. Le folte chiome divine vennero trattenute con nastri riccamente ornati, tempestati di pietre preziose. A completare l'«addobbo» nuziale, il collo di Thor, soleato da spesse e gonfie vene, fu cinto con la collana di Freya: la messinscena era completa. Le due «fanciulle», goffe ed impacciate nei movimenti - sebbene Loki, più avvezzo a simili truffaldini travestimenti, si muovesse con insospettabile grazia - montarono sul cocchio trainato dai capri e corsero verso la terra dei giganti. In poco tempo giunsero alla corte di Thrym che, ignaro e felice, accolse la promessa sposa e la sua damigella. Poi, desideroso di ben figurare, fece preparare un sontuoso banchetto, adornando con fasto regale le mense. Con la gioia nel cuore, iniziò a fare i primi complimenti alla sposa: disse di possedere mandrie intere di buoi dal pelo nero e dalle corna d'oro ed altre smìsurate ricchezze, ma nessuna poteva eguagliare il valore della sua bellezza. Intanto il banchetto era iniziato e, con grande stupore del gigante, la «fanciulla» divorò in un baleno un bue intero, otto salmoni ed una montagna di altre leccornie, il tutto abbondantemente innaffiato con tre botti di idromele tracannate in un solo sorso. Mai si era vista una gentile donzella trangugiare una simile quantità di cibo: il re manifestò apertamente la sua sorpresa ed i suoi dubbi sulla «femminilità» della fidanzata. Ma la «serva» - l'astuto Loki - fu lesta e, sfoderando tutta la sua malizia, disse che la sposa non aveva toccato cibo da una settimana, tanto era emozionata ed onorata dall'offerta di matrimonio di un tale signore. Soddisfatto ed orgoglioso per quella «prova d'amore», Thrym si accostò all'amata tentando di carpirle un dolce bacio: nello scostare il velo che le celava il volto, però, il re fu spaventato dal suo sguardo, da quegli occhi rossi come tizzoni ardenti. Thrym sobbalzò all'indietro. Anche questa volta la devota damigella fornì una lusinghiera spiegazione: la «verginella», impaziente di conoscere lo sposo, non aveva chiuso occhio da una settimana, ecco perché i suoi occhi erano arrossati in quel modo. Cosi, grazie "a spudoratezza di Loki, la truffa non fu scoperta e, giunto ormai il banchetto a termine, Thrym diede ordine di iniziare la cerimonia nuziale. Fu portato il sacro martello Mjdlnir che, secondo le antichissirne usanze, doveva essere posto sul grembo della sposa per augurarle prosperità e fecondità. Alla vista dei suo martello Thor sorrise e, afferratolo con entrambe le mani, abbandonò il travestimento muliebre seminando morte e distruzione tutt'intorno. Ovviamente il primo micidiale colpo fu riservato all'incauto Thrym, beffato e punito per la sua arroganza ed ingenuità.

 

Thor Sconfitto

Il cielo rumoreggiava paurosamente e la terra era battuta da violenti temporali: il carro di Thor, trainato dai fenomenali capri, stava dirigendosi ancora una volta nella terra dei giganti. Spinti dalla noia, Thor ed il suo inseparabile compagno di viaggi, Loki, erano partiti da Asgardh alle prime luci dell'alba per un'ennesima avventura. A sera, spossati dalla fatica del lungo viaggio, i due divini viandanti giunsero nei pressi della casa di un umile contadino. Qui, desiderosi solo di riposarsi e di rifocillarsi, decisero di passare la notte. Poco più tardi - era quasi ora di cena - l'imponente signore del tuono prese i suoi due magnifici capri e con un colpo secco li uccise. Dopo averli accuratamente scuoiati con un affilatissimo coltello, badando a non intaccarne la pelliccia, Thor li immerse in una enorme pentola, occupandosi personalmente della loro cottura. Quando i due animali furono cotti a puntino, Thor invitò a cenare con lui il contadino, sua moglie ed i loro due figli, Thialfi, detto il «veloce», e Róskva. I commensali dei dio, che avevano assistito a tutta la scena in un comprensibile stato di stupore frammisto a paura, mangiarono con vigoroso appetito quella carne tenera e dolce come mai in vita loro ne avevano assaggiata: fu davvero un banchetto divino, dono di un dio potente, ma generoso e benevolo con i contadini suoi devoti. Dopo mangiato, Thor stese le pelli caprine dinanzi al fuoco ed ordinò ai commensali di adagiarvi sopra ogni singolo osso, anche il più minuscolo, senza frantumarli o scheggiarli. Il misterioso ordine del dio venne eseguito scrupolosamente e, così, illuminato dal chiarore del focolare, si vide un bel mucchio di ossi ben spolpati. li giovane Thialfi, forse per gustare il midollo, aveva inciso con la lama del suo coltello il fernore di un animale, ma nessuno se ne era accorto. E i contadini, dopo aver ringraziato il dio, andarono a dormire. L'indomani, prima che i passeri si alzassero in volo, Thor si svegliò: afferrò il suo martello Mjólnir e si avvicinò al cumulo d'ossi lasciato la sera prima. Avvolto nel solitario silenzio mattutino, il dio iniziò a calpestare le pelli ed il loro carico osseo, pronunziando delle incomprensibili e misteriose litanie. Un istante dopo, in virtù di un inspiegabile prodigio, i cadavericì resti si animarono e due splendidi animali balzarono in piedi, colmi di una magica vitalità. Uno dei capri, però, zoppicava vistosamente: sicuramente qualche sciagurato commensale non aveva seguito le istruzioni divine, compromettendo la completa riuscita del rituale. Colmo d'ira, addolorato per la menomazione di uno dei suoi amati capri, Thor iniziò ad imprecare furiosamente ad alta voce. Le nocchie delle sue mani, che stringevano rabbiosamente il corto manico di Mjólnir, erano diventate bianchissime; i suoi occhi rossi emettevano scintille; il silenzio mattutino fu squarciato da cupi rimbombi, sonora manifestazione dell'ira divina. Il sonno dei contadini fu bruscamente interrotto: tremante e pallido, temendo per la sua vita e per quella dei familiari, il povero capofamiglia si gettò ai piedi di Thor, implorando il suo perdono e promettendogli tutti i suoi averi. Il signore del tucno, dimostrando ancora una volta la sua benevolenza nei confronti dei contadini, accettò, ma, prendendo alla lettera le parole del vecchio, prese Thialfi e Rdskva che, da allora in poi, divennero i suoi fedeli servitori. Lasciati i capri, ormai inutilizzabili, Thor e Loki continuarono a piedi il loro viaggio verso l'estremo oriente: Thialfi, che era il più veloce e forte, prese sulle sue spalle lo zaino con le provviste. Dopo una giornata di estenuante cammino, i quattro giunsero in prossimità della costa. Dinanzi a loro c'era l'immensa distesa oceanica: senza perdersi d'animo, fabbricarono una barca e presero il lago. Non fu certo facile governare il rudimentale vascello tra le gigantesche ondate; tuttavia, dopo ore di perigliosa navigazione, avvistarono la costa e, animati da un tenace spirito d'avventura, sbarcarono. Senza nemmeno un attimo di incertezza, i quattro si incamminarono, proseguendo in quella terra sconosciuta il viaggio verso oriente. Quasì senza accorgersene, tanto era il loro entusiasmo, dopo un po' si trovarono circondati da giganteschi alberi, completamente accerchiati dall'oscurità di una fittissinia foresta. Per quanto tentassero di scorgere il cielo tra le chiome degli alberi, essi non riuscivano a vedere la luce del sole. Marciarono per ore ed ore, fino a quando, esausti, pensarono di trovare un rifugio per la notte. Scoperto un anfratto seminascosto dagli arbusti, vi penetrarono: come d'incanto si trovarono al centro di un'immensa sala, l'ideale per passare la notte. Ma non dormirono molto: verso mezzanotte sentirono la terra tremare sotto i loro piedi come se fosse preda di un violento terremoto. Le pareti della sala, che sembravano solidissime, ondeggiavano come foglie al vento. In preda al panico, Thor e compagni si alzarono di soprassalto, correndo in ogni direzione, nel disperato tentativo di trovare una via d'uscita per sfuggire a quella micidiale trappola. Sulla destra scorsero un'altra sala, un po' più piccola di quella da cui erano fuggiti, e, visto che il terremoto sembrava finito, si accasciarono, stanchi ed ancora impauriti, davanti alla sua entrata. Ma Thor, per tutta la notte, non cessò di abbracciare il suo rnartello. La mattina dopo Thor si alzò e con estrema cautela usci a perlustrare i dintorni. Fatti pochi passi, il dio si accorse che, proprio vicino al loro rifugio notturno, stava dormendo un gigante che russava come un colossale maiale. Thor, ascoltando quell'insolita musica corporale, si rammentò degli strani rumori che aveva sentito durante la notte insonne. Il dio capi che bisognava stare all'erta e, per prepararsi ad ogni spiacevole evenienza, indossò la sua magica cintura. Proprio in quel momento la terra fu scossa da un altro fortissimo terremoto: il gigante si era svegliato! La sua inole ed imponenza spaventarono il pur maestoso dio dei tuono che, con un fil di voce, gli chiese chi era e come si chiamasse. Il gigante, un po' sorpreso, disse di chiamarsi Skrimir, «vasto», e in tono scherzoso gli chiese, indicando la dimora notturna del dio, perché mai avessero preso il suo guanto. Thor, sempre più stupefatto, capi che la maestosa dimora nella quale avevano trovato riparo la notte altro non era che il guanto del gigante e quella sala a destra era l'incavo per il pollice! Thor era spaventatissimo: la sua forza e potenza gli sembravano ben poca cosa di fronte alla statura di un così maestoso gigante. E quando Skrimir propose loro di fare un tratto di strada insieme e di mettere in comune le provviste non gli rimase che accettare. Thialfi svuotò lo zaino divino nella bisaccia del gigante e, contrariati ma impotenti, ripresero la marcia. Skrimir, con le sue poderose falcate, era sempre davanti: i quattro, con il loro passo abituale, facevano doppia fatica solo a stargli dietro. Finalmente, dopo parecchie ore di quella tortura, il gigante si fermò e disse che voleva riposarsi un po'. Trovata una quercia di proporzioni adatte alla sua corporatura, Skrimir si sdraiò ai suoi piedi ed iniziò subito a ronfare, producendo quella musica terrificante che Thor e compagni ben conoscevano. Affamati e spossati, i quattro pensarono di aprire la bisaccia del gigante e di servirsi la cena. Ma i nodi fatti da Skrimir erano così stretti che, incredibile a dirsi, nemmeno la potenza del più forte tra gli dèi riuscì ad allentarli. Era veramente troppo! Thor, sentendosi beffato, afferrò il suo martello a due mani e, con rabbioso sdegno, colpi il gigante sulla testa. Skrimir, ricevuto il colpo che avrebbe frantumato qualsiasi cranio, si svegliò borbottando, un poco infastidito, che una foglia gli aveva disturbato il sonno andando a cadere proprio sulla sua testa. E vedendo i quattro svegli intorno a lui disse loro, indicando la bisaccia, di servirsi pure. A Thor ed ai suoi compagni non restò che avviarsi mogi mogi ai piedi di un albero e di rassegnarsi a dormire a stomaco vuoto. Ma Thor non poteva chiudere occhio: l'assordante ronfare del gigante gli rammentava l'insopportabile affronto subito. E, nel mezzo della notte, il dio ritornò alla carica: afferrò il martello e, con tutta la forza che aveva in corpo, colpi la nuca di Skrimir. Anche se aveva sentito chiaramente affondare il martello nella carne del gigante, Thor subì un'ulteriore umiliazione. Il solo deludente risultato fu di risvegliare il gigante che, questa volta, si lamentò perché, a suo dire, una ghianda gli era caduta sulla nuca, distogliendolo dai suoi sogni beati. Ancora una volta Thor aveva fallito miseramente: a nulla erano valsi la sua forza ed il suo consistente armamentario magico. Ma un dio non poteva arrendersi a nessuno, tanto meno ad un gigante: Thor aspettò che Skrimir riprendesse a russare per sferrare un terzo attacco. E quando, dopo un po', si riudì l'animalesco respiro, Thor, con tutta la forza rimastagli nei muscoli, vibrò un tremendo colpo sulle teinpie del gigante. li dio pensò di avercela finalmente fatta: aveva sentito il martello affondare fino al manico nel cranio del suo nemico. Ma con sommo stupore e disperazione Thor dovette assistere all'ennesimo smacco: Skrimir si destò, seccamente contrariato, lamentandosi che evidentemente non era possibile dormire in pace in quel posto, visto che ora degli uccelli gli avevano defecato in testa. Ormai albeggiava e, siccome doveva andare in un'altra direzione, il gigante si congedò dai quattro. Ma prima di proseguire per la sua strada, Skrimir rammentò loro che la terra verso la quale erano diretti era abitata da esseri ben più grandi di lui, che mal avrebbero sopportato l'insolenza di quattro nanerottoli: forse, aggiunse, era meglio se ritornavano sui loro passi. Benché fossero notevolmente spaventati, i quattro viandanti non persero il loro entusiasmo iniziale e, tirato un respiro di sollievo per la partenza di Skrimir, si rimisero in marcia. Trascorsero altre ore in mezzo alla foresta finché avvistarono una fortezza che si stagliava maestosa in mezzo ad una radura: non riuscivano a scorgere il tetto dell'imponente costruzione che, quasi come un nido d'aquila, era posta su un'altissima rocca. Impiegarono diverse ore ad arrivare ai piedi della rocca ed altrettante a scalarla, giungendo davanti alla porta principale stremati dalla fatica. L'accesso alla fortezza era sbarrato da una spessa inferriata che tentarono invano di smuovere: alla fine furono costretti a sgusciare come gatti tra le sbarre, penetrando poco valorosamente in uno sconfinato cortile. L'immenso spiazzo era dominato da un palazzo che proiettava la sua ombra fin oltre le mura della roccaforte. Indugiando, ma curiosi di scoprire a chi appartenesse, i quattro, approfittando di una porta socchiusa, vi entrarono: era la dimora del più potente re dei giganti, Utgardh-Loki, «Loki del recinto esterno». Sebbene si dessero da fare agitando freneticamente le braccia per rendere il dovuto omaggio al re, nessuno dei numerosi giganti che affollavano il salone regale li scorse. Solo dopo molti sforzi il re si accorse degli intrusi. Riconobbe dal martello e dal rosso dei capelli il signore del tuono ed espresse la sua meraviglia: possibile che quel minuscolo essere fosse il famoso Thor, il più forte degli dèi? Certamente le sue doti, pensava ad alta voce, si celavano sotto l'apparente debolezza: in ogni caso presto avrebbe potuto mostrarle. Il re spiegò ai visitatori che era usanza locale allietare la corte con prove di coraggio e quindi chiese loro di lanciare delle sfide ai suoi campioni. Il primo a farsi avanti fu Loki che, pensando di non avere rivale in tale specialità, sfidò chiunque a mangiare più in fretta di lui un'enorme quantità di cibo. Utgardh-Loki ritenne la proposta abbastanza divertente, anche se non era una vera e propria gara di coraggio, e fece venire un suo suddito, Logi, «fuoco selvaggio». Seduti uno dì fronte all'altro ad una tavola riccarnente imbandita, i due campioni diedero inizio alla gara, trangugiando a più non posso decine di portate. In breve tempo sulla tavola non rimase più nulla di commestibile, ma mentre Loki aveva mangiato tutta la carne lasciando solo gli ossi spolpati, il suo sfidante aveva divorato anche le ossa e, se non lo avessero fermato, avrebbe mangiato anche il tavolo e le suppellettili. Tutta la maestria di Loki nell'imbastìre tranelli e tendere trappole non era servita a nulla: umiliato dall'evidente sconfitta, il dio si ritirò, senza dire una parola, in un angolo. Il giovane Thialfi, pensando che non a caso era famoso con il soprannome di «veloce», chiese al re se uno dei suoi campioni era disposto a correre contro di lui in una gara di velocità. Utgardh-Loki, nonostante che la sfida provenisse da un ragazzo, convocò Hugi, «pensiero», ordinandogli di misurarsi con Thialfi. Poco più tardi, il re con tutta la sua fastosa corte ed i quattro ospiti si trasferirono su di una magnifica pista, creata apposta per simili competizioni: si stabili di fare tre prove, cosieché venisse premiata anche la resistenza. La prima gara fu vinta da Hugi che surclassò il giovane, infliggendogli una clamorosa sconfitta. La seconda volta, incitato dai suoi compagni e volendo riparare alla precedente sconfitta, Thialfi impegnò tutte le sue energie. Ma anche questa volta Hugi arrivò primo al traguardo e, tanto era il suo vantaggio, si fermò ad attenderlo. L'ultima prova dimostrò definitivamente che Hugi era di gran lunga il più veloce: tagliato il traguardo il campione reale ebbe il fiato per tornare indietro ed incitare Thialfi che ancora non si era mosso. Utgardh-Loki si rivolse, con il tono beffardo del vincitore, a Thor chiedendogli in quale prova desiderasse cimentarsi per mostrare le sue doti. Il signore del tuono, irritato per tanta insolenza, stava per mettere mano al suo martello: ma, ricordandosi delle magre figure fatte contro Skrimir, disse che nessuno sarebbe stato in grado di bere più di lui. Allora il re fece portare il corno dal quale era solito bere nelle occasioni ufficìali. Porgendolo a Thor disse che, in quella terra, era considerato un buon bevitore chi riusciva a scolarne il contenuto in un sol colpo; chi aveva bisogno di due manches era un semplice bevitore: ma, aggiunse, anche i bambini tracannavano l'intero contenuto in tre volte. Thor afferrò l'insolito calice: a prima vista non sembrava molto capace, ma era di lunghezza eccezionale. Il dio prese a bere con foga e smise solo quando sentì mancargli il respiro: era convinto di aver tracannato tutto il liquido contenuto nel corno. Ma con enorme stupore dovette constatare, su invito del sempre più divertito re, che il livello dei liquido era lo stesso di prima. Senza riposarsi un attimo, Thor afferrò di nuovo il corno e bevve più che potè. Quando si fermò era convinto di averlo definitivamente prosciugato: invece il liquido era ancora tutto lì dentro. Il re continuava a prendersi gioco di Thor, stuzzicandolo con apprezzamenti certo poco onorevoli. Punto nell'orgoglio, il dio non si lasciò prendere dallo sconforto e con caparbietà riprese a bere spasmodicamente, deciso a farla finita: "a fine guardò il corno e, accortosi che il livello del liquido era sceso solo di qualche linea, lo gettò lontano con rabbia. Anche il più forte degli dèi, il difensore di Asgardh, aveva fallito, ma non si dava per vinto: chiese al re di dargli un'altra possibilità per dimostrare il suo valore. Il re, che provava sempre più gusto nell'umiliare Thor e compagni, gli parlò di un passatempo a cui erano dediti i ragazzi del posto: sollevare il suo gatto. Utgardh-Loki gli indicò un gatto grigio, piuttosto grosso, che se ne stava placidamente su una tavola al centro dei salone. Immediatamente Thor si avvicinò al tavolo e tentò di sollevare il felino regale, quasi non prendendo sul serio quella prova. Ma dopo quel primo approccio semiserio, Thor impegnò tutte le sue energie: per quanti sforzi facesse, il gatto rimaneva saldamente ancorato al suo piedistallo. L'unico risultato delle fatiche divine fu che, alla fine, il gatto sollevò una zampa. Ormai fuori di sé, Thor si dimenava furiosamente come un leone ferito: voleva fare a pugni con qualcuno, sfogare la sua rabbia. Il re, continuando nella sua sapiente opera di demolizione psicologica, osservò che, dopo il suo fallimento anche in un gioco da ragazzi, nessuno avrebbe ritenuto onorevole battersi contro di lui. Ed aggiunse, tormentandolo ulteriormente, che forse solo una donna, ed anziana per di più, avrebbe potuto competere con lui. Apparve allora nella sala una vecchia zoppicante, smunta e miseramente abbigliata: era l'anziana nutrice Elli, «vecchiaia». Indispettito per il nuovo pesante affronto, Thor si scagliò con violenza contro la vecchia, dimenticando le sacre regole dei duelli. Ma i suoi colpi, i suoi disperati attacchi, non fecero indietreggiare di un millimetro la vecchia che, anche se con un passo lento, veniva avanti senza curarsi dei pugni,e dei calci di Thor. Infine si assistette ad uno spettacolo davvero inconsueto: il più potente degli dèi piegato in ginocchio davanti ad una vecchia decrepita. Tutte le sfide erano state perse, l'onore definitivamente compromesso: ai quattro non rimase altra scelta che accomiatarsi e far ritorno a casa. Il re, dimostrando la sua magnanimità regale, si offrì come loro guida fino al confine. Giunti fuori del territorio dei giganti, il re chiese a Thor se era soddisfatto del viaggio che aveva fatto. Ovviamente il dio rispose che si sentiva declassato e che ciò non poteva certo fargli piacere. Allora Utgardh-Loki abbandonò il suo abituale tono di scherno e, quasi volendo chiedere scusa, confessò d'aver usato dei trucchi per vincere le gare. E, stupendo l'incredulo Thor, aggiunse che aveva stregato lui ed i suoi compagni ricorrendo a dei potenti sortilegi, cosicché avevano preso per vero ciò che, in realtà, era solo il prodotto di allucinazioni indotte magicamente. Innanzitutto il gigante da loro incontrato nella foresta non era Skrimir, ma lui stesso che, saputo dell'avvicinarsi di Thor, gli era andato incontro per saggiarne la forza e studiare una possibile difesa del suo regno. I nodi che invano avevano tentato di sciogliere erano stati fatti coli un filo di ferro fatato e sigillati con formule misteriche. E quando Thor credeva di colpire il gigante, il suo martello si abbatteva sul terreno, provocando spaventosi terremoti e creando valli e dirupi che avevano modificato l'antico paesaggio. Anche i compagni del dio erano stati vittime della scaltrezza e della sapienza magica del re dei giganti. Cosi Loki era stato battuto dalla personificazione del fuoco selvaggio che, come si sa, divora ogni cosa, senza lasciare nulla. Il giovane Thialfi poi, sebbene fosse più veloce del vento, non poteva certo competere con Hugi che altro non era che la materializzazione del pensiero uìnano. Thor, infine, aveva bevuto da un corno la cui punta era immersa nell'oceano, cosicché la sua sete non avrebbe mai potuto prosciugare le distese oceaniche. Tuttavia, con sommo stupore dei giganti, il dio era riuscito ad abbassare notevolmente il livello del mare, dando origine al fenomeno delle maree. E naturalmente il gatto non era un gatto, ma il famoso «serpe del mondo», il gigantesco rettile che avvolgeva nelle sue spire il globo terrestre: fu un'impresa davvero eccezionale riuscire a fargli sollevare una zampa. Infine, concluse Utgardh- Loki, la vecchia decrepita contro la quale si era battuto Thor nell'ultima sfida non poteva certo essere sconfitta: era la vecchiaia. E contro l'inesorabile passare degli anni si può anche lottare, ma sempre invano, perché nessuno potrà sfuggire al lento decadimento fisico. Dopo aver svelato i suoi stratagemmi, il re disse che, ora che conosceva la forza di Thor, non gli avrebbe mai più permesso di entrare nel suo regno. Proprio nell'attimo in cui il signore del tuono gli scagliò contro il suo martello, Utgardh-Loki si volatilizzò, scomparendo nel nulla grazie ad un ennesimo incantesimo.